Da: “Pianissimo”, Marsilio Editori 2001
a cura di Lorenzo Polato
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi un uomo estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia avea fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’ avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi un uomo estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.
*
Io ti vedo con gioia e con paura
ogni giorno scemare, mio Dolore.
Come l’amante che al risveglio spia
il volto dell’amante addormentata
e sente il freddo dell’irreparabile
ché i due corpi così vicini vede
farsi ogni giorno più tra loro estranei,
ogni mattino che mi sveglio scopro
il tuo volto più pallido, Dolore,
finché un mattino al posto tuo m’appaia
il volto scialbo della Consuetudine.
Tu che illudesti per un po’ la mia
aridità e che ai miei chiari occhi
di pianto intorbidandoli, lasciasti
vedere meno bene, e mi facesti
tutta la vita vivere nell’attimo,
adesso che ho imparato a amarti solo
o Dolore tu anche passeggero,
irreparabilmente te ne vai.
E se mi fosse dato, non avrei
forse il coraggio di chiamarti indietro.
Ma la mia vera vita con te viene
perché quando non soffro neppur vivo.
*
Lacrime, sotto sguardi curiosi
non mi scoppiate a un tratto mentre parlo
di vane cose (mi sovviene a un tratto
del mio cammino sotto i cieli bui,
non avendo una mano che m’incuori:
e l’inutilità di ciò che dico
di ciò che faccio mi fa grave il cuore).
M’irrita la carezza nei capelli.
Io troppe volte in giovinezza risi
per ricacciare dentro le mie lacrime,
ché la pietà degli uomini m’umilia.
E quell’altro mio io il quale sempre
m’accompagna, vorrebbe quando piango
alzar la faccia e ridere frenetico.
Mentre guardo mio padre ginocchioni
non mi colate giù rapide e calde.
Mi guarda il padre coi suoi poveri occhi
senza battere ciglio e scopre nuovo
l’irrequieto che tenea per mano
e che gli crebbe presso sconosciuto.
Ma nell’angolo buio d’una stanza
o nella solitudine d’un bosco
oh dolcezza di pianger tutto solo!
Al sostegno più prossimo m’appoggio
nell’improvvisa piena del mio petto
abbandonatamente come fossi
per morire e tra mezzo grosse lacrime
mi brilla il viso di riconoscenza.
Allora sotto la bontà dei cieli
io sono nudo come quando nacqui.
Dietro il sottile velo delle lacrime
allora sono solamente io.
*
Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo
come in sonno tra gli uomini mi muovo.
Di chi m’urta col braccio non m’accorgo,
e se ogni cosa guardo acutamente
quasi sempre non vedo ciò che guardo.
Stizza mi prende contro chi mi toglie
a me stesso. Ogni voce m’importuna.
Amo solo la voce delle cose.
M’irrita tutto ciò ch’è necessario
e consueto, tuttociò che è vita,
com’irrita il fuscello la lumaca
e com’essa in me stesso mi ritiro.
Ché la vita che basta agli altri uomini
non basterebbe a me.
E veramente
se un altro mondo non avessi mio
nel quale dalla vita rifugiarmi,
se oltre le miserie e le tristezze
e le necessità e le consuetudini
a me stesso non rimanessi io stesso,
oh come non esistere vorrei!
Ma un’impressione strana m’accompagna
sempre in ogni mio passo e mi consola:
mi pare di passar come per caso
da questo mondo…
*
Il mio cuore si gonfia per te, Terra,
come la zolla a primavera.
Io torno.
I miei occhi son nuovi. Tutto quello
che vedo è come non veduto mai:
e le cose più vili e più consuete,
tutto m’intenerisce e mi dà gioia.
In te mi lavo come dentro un’acqua
dove si scordi tutto di sé stesso.
La mia miseria lascio dietro a me
come la biscia la sua vecchia pelle.
Io non sono più io, io sono un altro.
Io sono liberato di me stesso.
Terra, tu sei per me piena di grazia.
Finché vicino a te mi sentirò
così bambino, fin che la mia pena
in te si scioglierà come la nuvola
nel sole,
io non maledirò d’essere nato.
Io mi sono seduto qui per terra
con le due mani aperte sopra l’erba,
guardandomi amorosamente intorno.
E, mentre così guardo, mi si bagna
di calde dolci lacrime la faccia.
inverno 1912
*
Talora nell’arsura della via
un canto di cicale mi sorprende.
E subito ecco m’empie la visione
di campagne prostrate nella luce…
E stupisco che ancora al mondo sian
gli alberi e l’acque
tutte le cose buone della terra
che bastavano un giorno a smemorarmi…
Con questo stupor sciocco l’ubbriaco
riceve in viso l’aria della notte.
Ma poi che sento l’anima aderire
ad ogni pietra della città sorda
com’albero con tutte le radici,
sorrido a me indicibilmente e come
per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…
maggio 1913
*
Camillo Sbarbaro nasce a Santa Margherita Ligure il 2 gennaio 1888. Nel 1911 esce Resine, il libro dei suoi primi versi scritti al ginnasio. Nel 1914 pubblica Pianissimo nelle edizioni de «La Voce». Partecipa alla prima guerra mondiale. Collabora con numerose riviste tra cui, oltre a «La Riviera Ligure», e a «La Voce», «Circoli», «Primo Tempo», «Corrente». Nel ’21 compone le liriche di Rimanenze, raccolte in volume solo nel 1955; sette anni dopo è la volta delle prose di Liquidazione e nel ’31, su «Circoli», dei Versi a Dina che saranno raccolti in volumetto nel ’56. Nel ’41 lascia Genova e va a vivere a Spotorno. Nel ’48 pubblica i Trucioli, composti tra il 1914 e il 1940. Sono infine da ricordare gli Scampoli (1960) e le Cartoline in franchigia (1966, lettere dal fronte della prima guerra mondiale) e la sua intensa attività di traduttore (Eschilo, Sofocle, Euripide, Flaubert, Huysmans). Testimonianza della sua attività di lichenologo di fama è il volume Licheni: un campionario del mondo (1967). Muore a Spotorno il 31 ottobre 1967.