Giuliano Ladolfi Editore 2018
prefazione di Giulio Greco
Dalla prefazione:
Confidenza, sussurro, dolcezza fin dalle prime liriche ispirano i versi di Luigi Finucci, i quali con tocchi di colori caldi sanno delineare le situazioni rappresentate, sempre immagini dell’anima. Sembra di assistere a un colloquio sottovoce dell’io lirico con se stesso, il cui tono risente di un profondo sentimento di unità di orizzonti esistenziali. […] Lo sguardo interiore si allarga al paesaggio, alla montagna, all’oceano, alla fatica con la quale si costruisce una vita: il limite è consustanziale all’esistenza, come chiarisce il terzo esergo tratto da San Paolo: “la creazione soffre e geme le doglie del parto”.
[…] Nei versi di Finucci si avverte la stessa sottile sofferenza nel constatare questa dolorosa realtà: in lui non tragedia, non ribellione, non atteggiamenti “eroici”, ma una sensazione, pudicamente celata, tra tristezza e nostalgia di un mondo privo di contraddizioni («Non ricordo l’infanzia»).
[…] La raccolta si presenta, quindi, come un vero e proprio inno alla vita appartata, all’esistenza comune, appannaggio di ogni persona, ideale ben lontano dalla moda odierna improntata alla ricerca spasmodica della scena, del riflettore, della “vita spericolata”.
[…] Ci troviamo di fronte – e non passi in secondo piano – non a un trattato filosofico, ma a un vero e proprio documento di vita, nel quale l’autore non solo traccia l’itinerarium personale, ma anche sa riprodurre da poeta la “magia del sussurrato”, quasi un colloquio dell’anima con se stessa e con il mondo, quasi “svelamento” di una sofferenza e di una ritrovata serenità.
*
Il sentiero si adagia tra i fili erbosi
come vento disegna il volo, a memoria
si torna in quel posto
fatto di movimenti continui:
i tigli hanno ombre lunghe
e le case sono poche.
*
Se solo il vento carezza
il dorso delle voci, appoggia
la mano sulla terra:
il sudore scende
figlio del cammino di anni addietro.
Il pomeriggio scorre
fra tante risa,
i fumi popolano la piazza, incontro
adagiato sulle sere
di un luogo che non ricordo
ma dove, seduto
ti ho incontrata.
*
Sulla riva del fiume
ho pensato al tempo.
Tutto cambia e
si logora, lo scorrere
dimentica i sassi;
lì ho trovato
un orologio spezzato
e il significato dell’amore.
Il fiume modella le pietre
come il tempo
con le membra.
Così la meraviglia
l’ho vista lì,
– ferma –
mentre tutto scorre
come il sasso nel fiume.
*
Pendici
da lì è chiaro il vento
volo lento, perpendicolare
carezza di madre.
Un secolo fa c’era un gabbiano
sulla roccia scoscesa, stessa
vertigine e alla domanda
del tempo
il respiro fu quasi
impercettibile.
*
Ora la nube si fa farfalla – gelsomino,
fremito d’autunno sui confini
d’una pozzanghera.
Erige una supplica
sulle punte e non è facile esaudire
la fragranza di quei versetti
detti solo a metà: traina
un peso di mille servi
e il tempio ha mura sottili, distratte
al vociferare dei passanti.
Di consueto ordine è il fiume, rumore
leggero che consacra il salmo e
fluisce sulle sponde una carezza,
e chi la raccoglie è un pescatore
e il tessitore delle reti fa sì che
non si disperda l’aroma – l’essenza.
*
Intorno il mondo è svanito,
si è rinchiuso in poco
e così non riesco a fermare
la cadenza dei battiti.
Ho rigettato
quello che dentro
era da salvare,
gli occhi non si staccano
e nel seme già
vedo la quercia. Io sono un albero, un luogo
dove le ragioni hanno un senso.
*
Le mani hanno sistemato
con cura i semi, senza dimenticare
nessun pezzo di terra, nessuna preghiera
nessun tentativo di serbare
acqua piovana che purifica.
Un cerimoniale invoca angeli,
prepara la strada alle radici che nel buio
si perdono nei meandri;
hai mai sentito un rumore
poggiando l’orecchio a terra?
Così l’albero ha un tronco forte, radici salde
dove nasce il dolore che formicola,
brucia fino allo svenimento
e poi
dopo tanto buio, un seme
germoglia dall’oscurità per uscire
piccolo piccolo, fuori
su di una distesa
fra l’aria fresca e la pioggia.
*
Disteso sei un ramo,
la foglia rimane lì
in silenzio.
Il riposo è un tesoro,
l’eco s’abbraccia sul petto
piano
e il cespuglio si muove
come di quiete.
La mano corteccia
posa l’attenzione sul profumo
del legno nuovo, e sull’autunno
che svela primavere.
*
Altro ancora – recita il detto,
così si finisce fuori strada:
l’essenziale.
Bisogna cercare qualcosa di buono
facile a dirsi, dove?
Lontano e in silenzio,
nelle case e nei deserti,
con una spada e
il dolore che annebbia:
lì, allo stremo
mi sono accorto della vita.
*
Luigi Finucci (Fermo 1984) in poesia ha pubblicato Le prime volte non c’era stanchezza (Eretica 2016) e la presente silloge Il Canto dell’Attesa ( Ladolfi 2018).
È presente in Atelier, Poesia del nostro tempo, L’Estroverso, Margutte, AlmaPoesia, Poetarum Silva, Poeti del Parco, NiedernGasse, Poesia Ultracontemporanea, larosainpiù, Inverso – Giornale di Poesia e L’altrove – Appunti di poesia. È risultato vincitore della 25° edizione del concorso “Poesia di Strada”. Collabora con alcune riviste online e alcune sue poesie sono tradotte in diverse lingue, tra cui il rumeno e lo spagnolo.
Ha pubblicato anche tre libri per bambini, in rima, per la Giaconi Editore: L’aspirante Astronauta (2015), Il paese degli Artigiani (2018) Il Mondo di Sotto (2021) e un albo illustrato poetico dal titolo CAMMINO – sulle orme di San Francesco (2022).
Queste poesie hanno il miglior requisito che, per il mio istinto di lettore, è garanzia di poesia vera: lasciano il desiderio, oltre che il pregustare il piacere, di rileggere. Anche per questo non ho voluto ancora leggerle tutte (ma certo poi mi procurerò il libro). Mi pare, alla prima immersione nella lettura, che la prima identità di questa voce poetica (e che mi lascia importante impressione) sia che l’io narrante, implicito e non, è solo uno dei tanti soggetti, grammaticalmente parlando; procedimento in sé non trascendentale, ma da cui scaturiscono enormi conseguenze.
Caro Michele, il tuo commento ci è gradito e prezioso. Grazie del tuo tempo e del giudizio positivo sulla poesia di Luigi, che pienamente condividiamo. Un abbraccio.
La ringrazio di cuore per le parole, e per la lettura.