PeQuod 2022



Imprendibile è lo struggimento d’amore, alba di ripetuta mancanza, per quell’assoluto che, cercato nell’umano, s’ammala di obliquità, e finisce per coltivare la sete.
Francesco Iannone ha parole tese e magmatiche, astrali nell’avvicinarsi a questa sfinge, che non in molti avrebbero saputo interrogare. Vive e si muove nell’ultimo suo lavoro in poesia (Prima opera del gesto, peQuod 2022) un universo sensitivo e metaforico, potente di ciò che di norma rintana nel muto: si pone qui invece in ferita sonora, fonda di fratture e corsi lavici, di concavità salmastre, distesa in veglie ebbre di estasi e martirî. Parola che, del gesto, tenta l’opera.
La distanza spaziale, temporale, emotiva mai coperta che pulsa in ogni legame è percorsa in versi e prosa con ferma bellezza. Un dispendio sfrontato, risoluto nella perdita.
Nella spoliazione di ogni orgoglio, il poeta si lascia cadere come un angelo spudorato: batte le ali fino agli alvei più bui, e fa, di privazione e distanza, un precipitare elevato, abissale.
L’amore elegge e solleva, illumina l’altro di eccezionalità, e poi ne gode la dolorosa luce dell’inattuabile possesso, a ritroso.
Minuti corpi e minime affezioni siamo, e nell’immensa resa c’è un unico possibile: cedersi alla combustione, farsi luce all’incendio. Prescinde dai computi l’amore che, gridandosi, è eterno nel dirsi precario, revocabile; e insorge, sempre ortogonale al piano dei giorni, sempre in bilico sul margine d’abbandono: l’orribile, il tremendo.
Amore come consapevolezza della propria non unicità, che si desta all’unico nella devozione: ciò che accende la creatura non è intrinseco a essa, ma nasce da un’accoglienza di proprio deliberato decremento, di voluta attenuazione. Perché l’oggetto d’amore sovverte e logora: nell’estenuato ripeterne il nome, nel tentativo sconfitto di carpirne il segreto, è dell’innamorato il simulacro di nostalgia eterna, la sfocata opalescenza del vederne le spalle andar via; e perenne e fluido, disciolto nelle cose, l’amaro del mancato ritorno.
Nido di spine è il continuare a recitarne come una litania quell’affinità col nostro cuore, che è percepita come certissima e anteriore al tempo. Incantesimo e barbaglio, illusione di fusione perfetta, dentro il gesto intimamente e costantemente proteso, che sempre ripiega in composta sconfitta, e plana al commiato: immobile puro contemplare, purgatoriale foco che affina. Residuo, pagliuzza d’oro, che sul fondo resta.
Soglia di dolorose salvezze, la poesia di Iannone va percorsa piano: è il poeta percettivo, di esattezza efferata, che con grazia abita l’enigma: lo tratteggia e poi si nasconde, umbratile, schivo. Solleva così altissima l’arca dei significati, facendola indenne dall’alluvione, dai commerci, dalle scialbe odierne vanità.
Banalmente: si è sopraffatti, nel leggere Iannone, da un passo sontuoso, di lessicale e sintattico pregio, che diviene immagine d’incoercibile carisma: molte sono le “croci tra le virgole”, e gli “scoppi nei vasti nascondigli delle sillabe” che sono barbaramente acquattati in quest’opera. Cauto e in arme, selvatico, il poeta tinge la grotta di segni rituali, fa chiaroscuri invertiti, graffiti arcaici come negativi di spavento. Iannone ha scritto un libro magnifico: antro in penombra dagli interni fulgori, dove ancora arde l’incenso sottilissimo della poesia.

Isabella Bignozzi

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Da Prima opera del gesto, peQuod 2022

Cos’è la fantasia del non averti?
La vena e la sua boria rossa. La voglia che un cuore scopre
al colmo della sua vertigine. La calca dei baci che una matta
destina ad una guancia immaginaria. Sono solo ed è un
inverno senza inni.


Irma Haselberger


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Taurocatapsia

per una festa di san Valentino

Sei una passeggiata fra le rose la mattina quando l’alba vaglia
del sole le distanze fra raggio e raggio. Sei un refolo che fora
con un sì la nota di ogni mio respiro, la volta tremula di
una fronda che stacca cantando il suo nome dal ramo. Gli
innamorati a quest’ora con un bacio svoltano la testa ad
un’unica sete.


Irma Haselberger


*

Su tutto ha vegliato un silenzioso
facchinaggio di rami
questa notte.
Il sacco è balzato giù dal grembo
di qualcuno.
E così abbiamo lungamente sognato
a ritroso nel nostro desiderio
un’alba sfavillante, un epico
ussaro senza nome.

Perché vivere vuol dire anche
opporre una resistenza lieve
indietreggiare fino al bianco
segno di confine.

Mostra al mondo
la tua lesione
il puro vuoto
dall’interno
e in quelle cavità disabitate a lungo
talvolta si ferma una foglia, talvolta
entra allegra una colomba.


Irma Haselberger


*

Esiste – disse la voce – esiste
la cagna silenziosa che lecca
la cucciolata nel buio, l’avvoltoio
che celebra il cadavere con un grido.

Ma io ho visto
la scultura sanguinare da una narice
la nascita aprire le fondamenta
delle mura, la capra
spirare sulla pietra sotto gli occhi di tutti
e così

dirsi ti amo è stato
l’istante del coltello che logora
la tela, la vena
e la sua ricca fioritura
di meraviglia.

(Tbilisi, maggio 2018)

Irma Haselberger


*

Verrai da una cecità
gemella alla luce
e ti avventurerai in me
come la più disastrosa delle maree.

Ti amerò in sommità
come uno stormo ebbro
di primavere o un’eco
che non si sgancerà dal suo boato
ovunque andrò sarà per il ritorno
e l’acqua muoverà per sempre
la stessa sabbia sulle rive.

Mi sollevi la muraglia dalle fondamenta
il mio gergo splende sulla cresta
di un possente novembre
e chiama i nomi semplici
dall’elenco

sento la tua sete appendersi alle mie labbra
e bere dal mio zampillo
sento il tempo fiatare dentro il vortice
che scatena l’uragano
e fare del nostro sangue il luogo
dove ammutoliscono gli inverni.

Vieni tu
ed è una giornata con tutti denti in bocca.


Irma Haselberger


*

Se non amo non ho colloqui. Solo un pallido velario senza
suono. Solo uno sciame di mosche alto sulle arsure. Quando
il mondo implorò il suo perdono le nostre voci poggiarono
come liberi tendaggi sulle crepe. Così l’ora incontrò il suo
rintocco e fu la vita in due, come folli in groppa al grande
flutto, tenersi le mani quando dai crampi della folgore nasce
la più vistosa lucentezza.


Irma Haselberger


*

Soffre alle tempie del mondo l’uomo che più non intende gli
eloqui delle stelle. Soffrono le mani sulle crepe e i roghi che
vi cuociono dentro. Soffre la bocca che non sa su quali fuochi
far cadere le sue scintille. Come la terra che esuma con un
bacio i suoi lampi dalle pozze, so a quale canto volge il mio
brusìo, so gli incarichi di luce che Gesù affidò alle corolle,
e so te nell’ora dei cenni che conducono allo stormo i miei
passeri dell’abbandono.


Irma Haselberger (particolare)


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Se viene è una mite vampa che fu un globo bollente. Un
ciuffo dal folto dell’erbe. Un fiacco grido caduto nelle
conche. Se viene è un calmo filo di lava che erode le verità
vicine. Un refolo che sa vegliare le valanghe. Se viene è un
mucchio d’oro su cui spicca ogni singolo grano, ogni uomo
solo, ogni viso simile al mio.

Irma Haselberger


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I giorni sono i miei fidanzati smemorati. Così invecchio
riavvolgendo la fune del bene seduto sugli arcobaleni del
ricordo. Scrivo come chi va col raffio ferendo tizzoni che
furono lance nei costati delle vampe. Chino gli occhi sulle
vie, solo le care rendite di luce sulle calve nuche delle ore.

Irma Haselberger


*

Come la cenere che va mendicando altri fuochi, il mio rivive
nel rogo che fu l’accadere del discorso prima del suono, della
voce. Non le merito più le dimenticanze dei vasti granai delle
vite degli altri. È come giacere fra torride mura che spingono
alla schiusa tutte le cove. È come frugare nelle grotte del nulla
la prima cerimonia della parola.
Tutto quello che so è l’ultima volta del raggio ridisceso nel
grembo del suo barlume.

Irma Haselberger


*

Come le più fantasiose vampe che effondono dalle crepe di
un cratere, sono così i tuoi baci.
Enumero sulla tua schiena pazienti estuari di sudore che
chiudono nel cerchio degli ardori le tue acque bianche. Nei
magnifici giardini della muta il primo scolo della vena forza i
diluvi nelle stasi delle rughe.
Ama chi divora gli ultimi scarti celesti sui cupi tavolacci dei
refettori.

Irma Haselberger



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E sia grazia delle fonti che raccontano le cieche verità degli
interstizi, la sera quando è bello essere la stessa polvere di Dio.
E sia grazia il bene che sa far migrare l’acqua dei tumulti,
l’amore dissipato in doni di noi è ciò che resta dei gloriosi
carri su campi senza eroi.

Irma Haselberger


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Francesco Iannone è nato nel 1985 a Salerno. Ha pubblicato le raccolte Poesie della fame e della sete (Ladolfi, 2011), Pietra lavica (Aragno, 2016), le plaquette Le belve erranti (Nervi, 2019), Pasifae (Cervi volanti, 2020), L’usignolo di ferro (‘round midnight, 2020) e il romanzo Arruina (il Saggiatore, 2019). Prima opera del gesto, opera qui segnalata, esce nel 2022 per peQuod. Collabora con il quotidiano «Il Foglio».