Cristiana Panella
su un’opera di Angelo Gilberto Perlotto
Toni. «Toni il rosso». Toni l’anarchico, vandalo per nomina della milizia fascista. «difensore dei disagiati», fu mandato al confino sulla montagna veronese. dopo la guerra tornò in paese, a Tezze di Arzignano, da obliato. nel 1946 si imbarcò a Genova per il sogno argentino; tornò dopo dieci anni di stenti a Buenos Aires. un mese di viaggio, da superstite, scaricato quasi morto di angherie nel porto di Messina. dopo sette mesi ritrovò il suo paese. percorreva le vie di Tezze in bicicletta, fischiettando l’Internazionale, la giacca logora, l’inseparabile fazzoletto rosso al collo, che chiese come compagno di salto nel trapasso, un taccuino e la sua valigia da merciaio ambulante.
l’essenziale è impollinatore leggero. la giacca di Toni è una delle presenze alitanti della fucina di Angelo Gilberto Perlotto, Gibo, pronipote di Toni e quarta generazione di mastri forgiatori, tra cui il bisnonno Antonio Lora (1835-1922), «robusto faber clavarius», intagliatore del legno, cesellatore, fonditore e scultore del ferro e del bronzo, le cui opere giunsero alle corti di Vienna e di San Pietroburgo. oggetti-mondo usciti dallo pneuma del ferro battuto, e tanto più fa solco nell’estrema tensione del dettaglio tanto più risuona sporadico e trasuda per farsi diaframma e mantice del soffio, rimando di materia prima eterogenea da stessa matrice. Toni giacca-corpo, un’indistinta solidarietà di ferite, ché uno è il passo vitale, conato di una disperanza riottosa a sé stessa. lamiere antracite di ferro forgiato a caldo, lacrime cicatrizzate, e sguardi distolti. sorella di sangue delle altre presenze del cielo della fucina, come l’ombra d’ala rubia di Icaro franato. accanto a Toni, la sagoma del telo nero che svela «Al di là», la porta lignea grezza da cui pende una chiave dorata: coscienza fugace dello stare al mondo tra la sopravvivenza remota di un Doppio collettivo e il frangente di un’altra storia intima in terra.
estraendo dal fuoco la voce del ferro Gibo libera il divino celato nell’ordinario, nell’umiltà imponente della materia. dalle foglie di verza di «Madre terra» al vetro muffoso delle bottiglie di eco morandiana di «Il nettare degli dèi», al «Sacco PG 59», in omaggio ai sacchi di juta che Alberto Burri era solito usare come coperta dopo gli anni nel campo di concentramento di Hereford, in Texas, pelle di memoria della carne assente.
fino al percorso ventennale delle «Crepe», giunture di affratellamento dove l’iperrealismo del sacro quotidiano insito nell’opus si dilata/dilania dagli interni del particolare facendosi cartilagine comune, rivolo di radici.
la quarta dimensione è un indugio assorto. così, la giacca di Toni, migrante per ogni migrante. in quello stesso anno 1946 si imbarcò per l’Argentina anche una donna, «Maria», narrata nel racconto, in parte biografico, «Dopo la linea dell’equatore» dello scrittore italo-argentino Adrian Bravi. Maria viaggia con il marito polacco, arrivato in Italia nel ’44 e costretto a partire, e il figlio Franco neonato. in prossimità dell’Equatore l’acqua potabile viene a mancare. Maria, tragica «mater lactans», su implorazione delle madri offre un capezzolo a suo figlio Franco e l’altro ai lattanti sconosciuti che le venivano porti, poche gocce per alleviare. i bambini che non sopravvivevano venivano rivestiti di un lenzuolo e lasciati al mare. piaga chiama piaga nella strutturale disuguaglianza di classe dell’alloggio e del menù di bordo, che neanche la livella di giustizia del latte materno sarà in grado di colmare. Maria vide scivolare nel mare aperto cinque piccoli corpi, che si portò addosso tutta la vita (Emilia Perassi, «Il menù di bordo. Nutrirsi durante il viaggio migratorio» Confluenze. Rivista di Studi Iberoamericani, XI, 1, 2019). la giacca di Toni. reduce per ogni reduce, barbaglio del corpo inanime scaricato nell’approdo siciliano. già relitto, già scarto. reduce è chi porta i cenci di assenza.
chi riconduce, riavvolge il destino erratico della linea ciclica, il confino porta a porta. la segreta del confinato è sentiero di pegni da tasca e bicchieri opachi, testimone orfano: lo stato di sospensione di quella «generazione di naufraghi» della guerra civile spagnola descritta da María Zambrano, che diventa archetipo esistenziale del fuoriposto: l’esiliato. «Ha conosciuto tutto: dall’essere considerato un eroe, un eroe superstite, al disprezzo con cui certe coscienze reagiscono davanti alla presenza viva di un enigma; dall’ostilità dichiarata all’adesione, con cui talune coscienze si sentono riscattate e che implica, naturalmente, l’esigenza ch’egli resti tale sempre, come si chiede a chi ci salva da qualcosa (…). Poche situazioni si danno, come quella dell’esilio, nelle quali si presentino, come in un rito di iniziazione, i segni della condizione umana. Quasi si stesse compiendo l’iniziazione di essere uomini» (María Zambrano, L’esilio come patria, Morcelliana 2016: 75-76). reduce l’essere umano come il suo specchio di ferro. come la penombra fresca che fende la canicola. come il fiore di tiglio che suppura biancore pungente. ogni forma di vaganza parla a nome della sua veste.
una valigia per chi è partito,
per chi è tornato
una lotta eterna, gli uomini e la valigia.
(marzo 2018)
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Cristiana Panella (Roma, 1968) è senior researcher in antropologia sociale e culturale. Vive e lavora in Belgio. Dopo la laurea in Lettere Moderne a Roma si è trasferita a Parigi, dove ha ottenuto un DEA (Diplôme d’Études Approfondies) in Storia dell’Arte Africana alla Sorbona per poi conseguire un dottorato in co-tutela europea (Paris 1 Panthéon-Sorbonne, University College London, Universiteit Leiden) in Scienze Sociali all’Università di Leiden, nei Paesi Bassi. Ha effettuato lunghi soggiorni di ricerca in Mali sul commercio clandestino di antiche terrecotte e sui cercatori d’oro, prima di dedicarsi allo studio del commercio informale a Roma. Attualmente è orientata, in una prospettiva multidisciplinare, sulle implicazioni etiche della corporalità. I risultati delle sue ricerche sono stati presentati in decine di pubblicazioni e convegni internazionali in Europa, Canada e Stati Uniti. Parallelamente ha collaborato come editor e lettrice con la casa editrice di Bruxelles maelstrÖm ReEvolution. Suoi testi di poesia e prosa, note critiche e traduzioni di poesia inedita francofona figurano in diverse riviste italiane on-line. Nel 2019 ha pubblicato per proprio conto il non-romanzo in cielo e in terra. Nel 2022 ha vinto il Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano per la sezione «prosa inedita».
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Angelo Gilberto Perlotto, Gibo, maestro della forgia, vive e opera a Trissino (Vicenza), in una casa bottega adagiata sui monti Prelessini. Le sue opere sono attribuite all’iperrealismo; tuttavia, in adesione con una manifestazione sacrale della realtà, ogni giorno rinnovata. In quarant’anni di creazione, ha esposto in decine di mostre personali e collettive nazionali e internazionali.
In occasione del centenario della morte di Antonio Lora la Biblioteca Civica di Trissino accoglie diversi appuntamenti tra cui la mostra « Storia di una Bottega : viaggio tra i lavori di Antonio Lora » (8 ottobre-6 novembre 2022, a cura di Maria Teresa Perlotto) e la presentazione del volume da collezione Antonio Lora – l’arte del bronzo e del ferro. Fusioni e visioni di un creatore di bellezza (a cura di Giorgio Trivelli e Anna Perlotto, Gestioni Grafiche Stocchiero, 14 ottobre 2022, 20.30).