(Poesie 2009-2016)

L’arcolaio 2021, prefazione di Antonio Devicienti


Nel teatro d’anime in cui il vivente ha dimora, c’è l’oscurità, e c’è il fulgore. Tra questi due poli, nell’interminata landa di ogni possibilità, si traccia austera e sorvegliatissima la parola poetica di Flavio Ferraro: determinandosi come via percorsa, come ripido pellegrinaggio alle pendici della sorgente. Che sfugge, nitida in trasparenza.

Versanti bianchi, e dorsali di acuminate asperità, per l’inestensibile nostro essere umani: candidi di inettitudine, minati di divina essenza, perduti nelle severe e liriche vastità del sentire. Un inesausto riformulare, chiamare a sé quel principio primo che è origine di ogni orfanità, di ogni anelato amore.

Come cristalli di ghiaccio, i versi di Ferraro salgono a invisitate sommità, e sciolgono al cospetto della Luce immutabile che hanno loro stessi evocato. Dileguano in trattenuta potenza, e lasciano propria traccia nello spazio, come riverberi e bagliori di sostanza perpetua, mai lambita nel suo nido di senso. Senso primo, inviolato e caro, agognato con ardore purissimo. Nel ruotare delle cose, i mistici lo sanno, si consuma un ordine segreto, da decifrare. Col ritmo del respiro, immobili.

Ferraro non tenta l’appropriazione, il reale che va visitando non è afferrabile mediante studiate architetture e sintassi; ma piuttosto, il poeta sembra voler ospitare in sé un un rivelato cosmico che lo elegge in quota, comminandogli il rischio della verticalità. Come dice Cristina Campo, regina di sconfinatezza, negli Imperdonabili: “Il modo che ha un poeta di ricavare dal suo lavoro passato nuove illuminazioni per la sua coscienza somiglia a quello con cui Munchhasusen raggiungeva la luna: tagliando la corda sotto di sé, per allungarla sopra.”

*

da Flavio Ferraro, Il silenzio degli oracoli, L’arcolaio 2021

(Da un estremo margine)

sempre un sentiero affiora.

Una misura, che porta al punto
di vertigine: estremo lembo,
dove il fiore sprofonda.

Attraversare non è nulla.
Solo nel vuoto
il vuoto si colma

*

non ancora sorgente:
ma un fiume, che scorre
nell’alto. Un fiume azzurro.

Anche questo, vedi,
è mutamento; anche là,
nel fondo occulto,
cerchio di luce.

Che emerge
limpido dal buio.
E lo racchiude

Fotografia di Rosa Isabel Vázquez

*

(Di chiarore in chiarore)

tendere là, dove s’irraggia,
dove a miriadi, a sciami:
sempre quell’iride, quel fondo,
in un solo punto radiante.

A miriadi, a sciami,
perpetuamente spettro:
ma dove luogo? Dove un unico,
e infinito, accadere?

Noi saliamo, saliamo.
Noi strappiamo palpebre
alla luce

*

non era che ascolto, ma cresceva.
Non più che un sigillo
di ghiaccio, ma sonoro,
reso lieve dall’abisso.

Perché fu parola,
eco che nascondemmo,
finché non tacque.

E ora che non ha più margine,
non ha misura, quella ora
si leva, fino a qui,
si fa respiro e direzione

Fotografia di Rosa Isabel Vázquez

*

(La direzione del tramonto)

Luce che mi è segreta
se non tramonta; e dove porta
mi chiedi, dove scompare
a chiudere dintorno a cingere
lo spazio dei miraggi.

Estrema parvenza d’increato,
guarda come tutto è preso
in un abbaglio: raggiunto
da uno stesso esilio,
senza discernere i colori.

Bianco su bianco, sempre,
e nonostante tutto andare.

*

Albero cavo da millenni,
da sempre non compiuto, cieco
fra i regni colmi di vento
senza la grazia di oscillare.

Ma adesso, in questo nitore
che accresce ogni sembianza,
come un punto screziato
sfuggito alla sua trama –
è qui, a te chiede un soffio.

A te, che senza fine spargi,
irrespirabile.

Fotografia di Rosa Isabel Vázquez

*

Allievi di molto morire
– nostra unica sapienza –
a volte sembriamo rocce
intente a risalire il fiume
dell’estate.

Ma non siamo come i semi
che sprofondano e poi
s’inverano fedeli apparizioni,
non abbiamo (siate chiare,
mie parole
) questa costanza
del ritorno.

Aurora di ogni vigilia,
sposa a lungo cercata
tra le tenebre, rompere
un vaso e poi indovinarne
la forma – sarà questo,
scendere nel buio.

*

Sponda del lago, quanto
per me indubitabile
entro una macchia
di faggi che si oscura
se la guardi, senza sintassi
come fiori di novembre.

Ti lascio questa fede paziente,
questa pietra amorosa
nell’accogliere il fondo,
come se amare fosse cercare
al di là, oltre il volto
che affiora, nell’incresparsi
di uno spazio ventoso.

Ti lascio parole
a cui non credo.

*

Non perché tu intenda
il divenire, questa lingua
del disastro: ma fuggevole
sei, affinché sia detta
l’ultima parola,
viatico alla notte.

Se questo cielo
torna sempre a quel punto –
sì, passammo invano.

*

Figure del congedo,
puoi vederle talvolta.
Sono mani infantili
che intrecciano steli
in fondo alle forre,
disadorne corone
per l’ascensione dei fiumi –
e cavalli ombrosi
nell’ebbrezza dei prati
o assorti, se un’eco
gli giunge.

Promessi all’esilio,
ovunque sfavilli un girasole,
e straniera la terra dei padri
nel recinto dei sogni.

Fotografia di Rosa Isabel Vázquez

*

Orme, e mai abitatori
dell’origine, soltanto orme
sulla terra che non sa morire,
indocile argilla nel palmo
delle notti.

Ma quelle soglie imperturbate
come sfingi; quel sentore
del mondo prima del mondo;
quel nume terribile,
che mai nessuno tradì –
io lo so, sanno destarsi.

Fa’ come me, dillo ancora:
sì, io voglio.

*

(La luce immutabile)

Sei solo quando tacciono
i venti alla finestra notturna,
e nessun popolo minuto
cospira nel tuo orecchio
e nell’ombra, ignaro
di alfabeti, tenti sillabe
misteriche.

Però nessun maestro,
nessuno che seguiti
a tacere.

Fotografia di Rosa Isabel Vázquez

*

Sempre il medesimo profumo,
quel sentore di terra e sangue:
ricordi di savane, di notti
monsoniche all’aperto.

Tigre immemorabile,
sei qui nel cuore di ognuno,
assorta in ampiezze.

*

Lo so, c’è gloria maggiore
di uno stelo, e più grandi
misteri cela il bosco
di questa nubile ghianda.

Però non ho voglia
di infierire su quel bruco
(“l’infimo il minimo il dettaglio”)
trascurato dai filosofi,
lui che invece era il più puro –
l’effimero che non volle
crescere, tradire come tutti.

Fotografia di Rosa Isabel Vázquez

*

Cose durevoli mi chiedi,
mai deluse dall’abbraccio:
parole che risuonano,
stremate, nel silenzio
degli oracoli.

Sai, si cammina
per abitudine, non si va
dove si giunge.

*

Si effonde nei mondi,
senza essere i mondi.

Così, scorrendo in tutto,
non c’è nulla
che non trattenga.

Fotografia di Rosa Isabel Vázquez

*

Non si accade, nel dispiegato
mattino dei prati,
affinché storia sia qui,
dove riluce il sangue
immemorabile.

C’è un istante fuori
dal tempo, lontano
dagli annali dell’orrore.

Vedi, gli uomini passano.
I semi che scomparvero,
fioriscono.

In copertina: Flavio Ferraro ritratto da Dino Ignani