il Convivio Editore 2021
postfazione di Franca Alaimo


Dalla postfazione di Franca Alaimo:

La poesia di Alba si mantiene aderente alla rappresentazione degli elementi naturali, come ad una scenografia entro la quale collocare il suo cast privato: sé stessa, la figlia, l’uomo amato, i suoi piccoli alunni, con le loro battute e i gesti quotidiani, e i lutti non ancora risolti e gli accadimenti anche minimi; affinché, attraverso l’immersione nella natura, […] spalancando i sensi, mentre annusa odori, ascolta rumori e bisbigli e osserva “le cose accese del mondo” nella loro vivida policromia, le riesca di afferrare quel filo che possa condurla nel cuore del labirinto che è la vita […]
Un sospiro impercettibile filtra tra i versi, come a non guastare l’incanto, sebbene si percepisca, qua e là, una sorta di sconforto dell’autrice di fronte a tanto sovrappiù di amore, che esige, cura, attenzione, sacrificio di sé. Le accade, allora, di avere bisogno di invertire le parti e di affidarsi, tornando a casa, alle piccole mani della figlia, percepita spesso come una creatura magica, che canta e parla una condensa di favole e favelle, ricomponendo l’equilibrio tra presente e futuro.
[…] Ma, come scrive Adonis, la poesia non può cambiare il mondo, né cambiare chi la scrive, però “può creare un modo nuovo di guardarsi così come l’amore: non cambiare gli esseri umani, sono loro a cambiare dopo essere vissuti”. La Gnazi, attraverso la poesia, ci dice, appunto, quanto sia mutata vivendo: dal tempo dei vent’anni, quando “si è multipli, blu/ e ancora possibili, ancora stretti, con pochi alibi// assenti al vuoto” a quello della maturità abitata da un cupio dissolvi appena trattenuto dal dono dell’amore, da una bimba dalla mano piumata che fa da psicopompo nell’accadere chiaroscurale della quotidianità.

*

È a un angolo dell’occhio – di qua
dal tempo – è in quel minimo che cade.
Bisogna essere pronti ad afferrarla
– a tendersi fuori da sé, a restaurare impressioni e percezioni
sovrascritte da abitudini e docili passioni –
per averne un po’
– che brucia e allevia
tra le mani –

o a lasciarla andare.

*

Il nome delle cose

Da dove arriva, chiedi,
e come, il nome delle cose
di cui sfioriamo il suono;
corpo sonoro di cose
che qui si dilatano, lì
sbiadiscono,
altrove arretrano, cadono,
non bastano;
ci dicono
vivi al mondo e poi cancellano
la forma che occupiamo
nel tempo, nell’incudine
nel margine di un’idea,
ma tu in quel tempo cercale,
ad altro tempo rendile,
fanne mallo, gheriglio, noce.
Muta il tuo silenzio
per farne luce.
Metti dentro a un fiore
la tua voce.

Fotografia di Angélique Boissière

*

Un’idea che si tocca

Da qui l’inverno
è un’idea che si tocca.
È un alito rapace sul vetro,
una persistenza verticale
in cui collocarsi, aspettando,
col mare frenato dai pini e le poiane
sgrappolate fuor di nebbia.
Convergono malinconie
che si svelano futili, sorpassate
come una corrente
da fermare a mano aperta,
nei giorni in cui
il freddo dà noia;
tra una domanda ripetuta
e un’intuizione
che fortifica le reni,
mentre si confondono
assi interiori per decametri,
e giù in stazione i treni passano
e si saluta agitando la mano
quasi fosse domenica,
quasi fosse un ritorno.


*

Il volo

Ci siamo persi in qualche leggerezza,
camminando su un crinale
di sale e gesso,
dentro un tepore di olivi
e di assenzio,
e scintillii purpurei
sulle braccia, fin nelle ossa;
sul proscenio erboso
tra i fiori di alisso e di scilla
eravamo simili a polvere di farfalla,
staccata dalle ali,
trastullata dal vento.
La possibilità del volo
era il vuoto intorno,
l’eco dell’erba tra le rocce,
il sale sulla lingua;
lo stesso volo
era assenza di foschie
nel bianco intermittente
privo di ricordi
– solo gli occhi conservano i ricordi
e la pelle ferita dal silenzio.
Tutto in cima alla rupe
era immobile e taceva,
il silenzio stesso era fermo
e taceva,
rampicato attorno al nostro corpo
era nuda e compiuta preghiera.


*

FinisTerrae

Per la città di marmi e arcate
io non esistevo pienamente
se non come ombra a punta fine
su mura e selciati,
nel frastuono di carri, passi
e pensieri inauditi
di dialetti sconvolti dai libri
e di gente che sa sempre dove andare
che mi urtava e striniva
di fretta e fiato la mia incidenza
nulla su quel posto finis terrae e saraceno
dove ero andata per sapere cosa fare
e lenta spiavo il becco dei piccioni
sugli altari bizantini,
gli scoli sulle strade annerite
di grondaie e di cielo
poi qualcuno dopo un buio ha chiamato,
ed è stato quando
ho iniziato a correre anch’io.

Fotografia di Angélique Boissière


*

Scrosciava ultimo

Appare meno fisso
visto da questo tempo
il mare,
un precipizio inquieto, indeciso
di nebbie impuntate sulla soglia:
come te, che non volevi andare
ed eri un gesto a dita tese
confuso dallo sguardo,
un dolore ispessito, un’ustione di furia
tra la curva del collo e le ciglia.
Poi in un attimo è stato il silenzio.
Scrosciava ultimo, intatto;
veniva giù
senza toccare nulla.

Fotografia di Angélique Boissière