Pietre di scarto

Tesa dolcezza, massimo fuoco.
Uno schivo sfiorare comprensione
arriva al fondo e smuove angeli sepolti,
una sberla di parole incaute
scava l’occhio funesto di un tornado.
Non il nerbo di chi va sicuro
ma la tattilità tremante
di chi arretra sperso in ascolto
lavora a rodere la corazza maligna
dell’indifferenza,
tesse allo strazio di durare
un saio di correnti ascensionali,
di lucidità sommerse

*

Non una minima crepa per l’occhio della lingua
in questa cancrena del cielo. Sono già stata qui a tendere braccia di bave disseccate dove non circola aria, nel fiume immobile che ospita chiarori smisurati.
Sono già stata qui
e so che non esistono porte nelle cave del niente pulito a perfezione, molato da uno strofinio di capelli strappati, so che non ci sono nascondigli per sottrarsi alle ore senza fondo, alla feroce fissità
di un sole di vetro,
e nonostante è per sottrarmi che vi scrivo, per disegnare porte impossibili, per ferire il cadavere crudo della materia.
Chi passa non porge denudati violini d’ascolto alle voci incavate, al segreto delle morti invisibili.
Chi passa non guarda qui dove non c’è traccia di sangue, dove i coltelli sbucciano le mele, non sente
che questo luogo arresta la parola
e che reggere questo stremo tra carcasse divorate da fiori molesti,
tra le bucce dei pasti forzati, i semi sputati, e non farcela
a sollevare il ginocchio fino al petto,
è una crocifissione vuota

Fotografia di Eugenia Hanganu

*

Frugo dappertutto senza braccia senza mani
occhi governati dall’urlo spento
dell’ultimo marinaio.
Frugo immobile ovunque nello spazio
metallico del giorno mondo dove il tesoro
di stracci fumanti è trovare sé stessi e non perdersi
come sognano gli uccelli
partoriti dalla ruota delle ceneri.

Perdersi è l’orizzonte del ricominciare.
Inesauribile proda il volto, il nome della luce.

Lo scacco del salto che sembrava perfetto
per raggiungere il ponte
segnò la nostra libertà. Non c’è coraggio
in uno sguardo che non sia nero del tutto.

Andare fu concedersi alla foresta
insonora delle voci murate nelle storture
dei sempreverdi cantori del vento.
E raccontare è questo desiderio di finire
nell’impossibilità di farlo.

Non finiremo mai.
Salta in aria il punto alla fine della frase
dalla ferita aperta sgorga la lingua bianca
di una città segreta,
di un oceano disertato

*

Avanzare è toccare a occhi chiusi
una statua che perde man mano i contorni
fino a che le mani si annientano nell’aria.

Quel che siamo supera di un infinito
quel che crediamo di essere.

Esistono scantinati di realtà
abitati da venti di montagna

raccogli questa luce d’inverno
in correnti oltre il volere,
oltre la maschera del tempo

*

Danzatrici sospese, lentissime,
giocoliere mangiafuoco.
Creature di niente,
mari fermi a metà della sete.

È un’ascesa fallimentare
quella delle nuvole.

Brevi anime fallite creatrici di incanti.
Smembrato pane intinto nella luce

*

Silvia Giacomini ha pubblicato alcune raccolte di poesie tra cui Il sangue del cielo (Italic Pequod), La tentazione di essere vento (LaVita Felice), Mal bianco (Ladolfi), Cittadinanza d’altrove (Le Càriti), e di racconti tra cui La metamorfosi delle cose (Progetto Cultura) e I pellegrini dell’assurdo (Il Convivio). Ha curato Tre imperdonabili. Emily Dickinson, Antonia Pozzi, Cristina Campo, di Matteo M. Vecchio (Le Càriti).
Attrice di teatro, dopo aver lavorato nella compagnia Atecnici e presso altre compagnie di Milano, ha avviato l’attività teatrale de I desideranti. Ha realizzato spettacoli per il Civico Planetario di Milano, il FAI, il Parco Nord, e letture sceniche tra cui dai testi di Antonia Pozzi, Etty Hillesum, Simone Weil.
Formatasi in Drammaterapia, ha condotto laboratori di teatro creativo, in particolare nell’ambito del disagio psichico. Ha tenuto mostre personali di incisioni, e una mostra fotografica inserita nel festival della Fotografia Etica di Lodi.