AnimaMundi edizioni 2024
collana cantus firmus, a cura di Franca Mancinelli e Rossana Abis

prefazione di Alfonso Guida
postfazione di Sergio Bertolino


Cafarnao è il teatro, il teatro col suo doppio erotico. Mistica della parola potentemente sublimata. Costruzione filosofica sorretta da un mal de Dieu ferocemente sensuale eppure muto, opaco, ricoperto da un eloquio alto, altissimo, rarefatto.
[…] Nessuna traccia di paganesimo, mail tratto peculiare e pesante di un io nettamente converso al theós cristiano, col suo immaginario rigoroso e purpureo come la materia del miracolo, come il principio ultimo della Visione, che qui maternalisticamente soprassiede, avanza, dirige la sua nave.

Alfonso Guida

*

Di tre temi fondamentali – Dio, amore e natura – ne basterebbe uno soltanto per sostenere una parola in grado di restare. L’ossessività di Giuseppe – ossessività circa il “totale” – vive nell’aldilà dell’io. È orazione e raccoglimento liturgico. Pura richiesta d’Altro. Puntata massima sull’estasi.
[…] in Cafarnao cantano le cicale, e le cicale sono poeti migliori, cantano la vita senza un nome. Lasciato il chiostro, la parola cicalata rompe nel vuoto del suo non dire cosa. E non si tratta di oscurità (lì feconda una grazia, penetra la vita): un subbuglio di cicale dichiara urgenti “il verbo che consumi” e il silenzio di cui siamo capaci per l’ascolto.

Sergio Bertolino

*

Come facendosi avanti nella cautela di un’effrazione inversa, laddove qualcosa si segna in crepa e dà desinenza al sortire verso l’altro; e tuttavia tenendosi idealmente impronunciati nel “cerchio” della “parola intatta”, ad assistere al commiato dei propri abbagli da una quieta saldezza. Così si avverte il portamento del poeta nel più recente lavoro in versi di Giuseppe Todisco (Cafarnao, AnimaMundi edizioni 2024), astuccio di croci scarlatte, e insieme candeliere di radiosi strali: meridiani aurei, antichissimi di pace.
Perché è da un silenzio lungamente accudito che il poeta mima, tra intento e ventura, la teca ferma del “sonno delle campagne”, e sèguita nella fatica umana dello sguardo, vilipeso dal degrado della materia: “tra i fossi e le immondizie / Dio si è fatto malva. // Così girato, santifica la tela”, senza negare od occultare la propria eccedenza, perché “l’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene […] la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc, 6: 45).
Se dal reale l’assiduo corteo di afflizioni issa al giorno gli stati della distanza, declinandone anche ulteriori immateriali sensi, così il ricordo dell’anima eletta è il ritmare in melodia, senz’avversioni, ma in pieno affetto, l’accuratezza di un abbandono: pronuncia certa del proprio nome nel dolore, rettifilo del riconoscersi nudi e soli, adagiati sulla linea del tempo.
Nulla di epico la vita, infine: il tentato amare, lo sfiorire di forze e ardimenti, il sapere la morte già nel seme. E l’impotenza della parola poetica quando fruga taglio e stampo – cerca l’idolatria dello stile – anziché rinsaldarsi alla propria radice di amore, dove sa la purezza intera.
È la brama che adombra lo spirito, quando vanità induce l’insediarsi nell’identitario recapito, togliendo aria e salvezza. Altra postura è quella della libertà nel riparo, che procede da una consegna: a picco sul capo vi è quella nube di tutela dove ascesa in spirito e salvaguardia celeste s’incontrano negl’intermedi strati del cielo, ed è reso a Dio, dall’interno delle braccia, quanto gli appartiene: “Tutto sopra di te si dispone. Così può anche / la lucciola cedere il suo quarto di luce buona / al sorgere del sole”.
Imperativo mobile, ma sempre nella luce di un ritorno: vivere affidandosi, leali nella misura, come creatura che s’innalza e pone il patto a deduzione naturale dell’esistere, se pur in apparenti, timide ritrosie: “Da qui in alto / il refe azzurro che ci tiene / è simile all’idea del fiore / che sa di quanta terra scendere”.
Irrevocabile è l’amore donato, come il deperimento che ci fa umani: in quella segretezza enorme che ogni cuore custodisce, tutto avviene nel corso dovuto, estenuandoci al capolavoro di sparizione che delinea la vita devota alla vita.
Nell’opera di Todisco c’è il refolo inverso dell’edotto spegnersi, il sapersi continuo nell’esser lasciati da ciò che va altrove, rammarico che in ciascuna umana esistenza è tatuato a fuoco. E un permanere delicato, nel candore portante di chi si trattiene preciso nella veglia, presso la  “casa rotta” che esponeva, un tempo, l’assonanza dei nomi.
Quando si ribadisce in sé stessa l’ombra che serba internamente il grido dell’assenza, ecco il più arduo apprendimento: l’amore che possiamo, che riusciamo prescinde dall’essere accolto e si adagia in presenza tersa, affrancata da ogni ottusità della materia. Aria spezzata e compendî di rovi nulla offuscano di ciò che si centra nel chiarore: scarno e fulgido, vergato in ideogrammi di quiete, il diario lirico di Todisco si dona già orientato secondo le proprie coordinate primarie: oggetto laconico, venato di delicate affettuosità, è un rosario di armonie dalla grazia così occulta e schiva da risultarne fasciato: e cade nel mondo candido, incolume, sigillato nella sua luce.


Vincent van Gogh, Ramo di mandorlo in fiore in un bicchiere, 1888, Olio su tela, Museo Van Gogh, Amsterdam


*

Esci dalla parola
intatta.

Chi è là,
              chi ti indovina?

Amo, dici, quando un uomo
si addentra nella macchia
convinto che dal ramo si scorga
la radice.

Dimora il cerchio dove parli.
Più in alto un sogno
si ammutina.

*

Speravo vivere fosse
più antico.

È amarsi, sfinire
dal basso i gladioli

ché morire lo impari
da piccolo:

anticipando gli occhi, l’ombra
compie il suo destino.

*

Dove ti siedi e alberi,
viene un urto di scirocco
sulle case.

Tu che mi stacchi
una promessa dal costato,
sai che del corpo
– tra le braccia – non c’è misura

purché sia mio
il verbo che consumi.

*

È nella bocca l’angelo del Signore,
irruma giustizia in me
e passiflora.

*

Dovunque sia finito il bene
che ho voluto, di una mano
si può sempre dire ciò che stringe.

Resti all’ago la certezza
del martirio, ché a me scompare
un occhio ogni volta che respiro.

*

Quanto di un bacio avviene – che sia
per gesto o altitudine – porta con sé
una fregola d’ali. Poco al di là del fiume,
ancora la fiamma scampata dal prato.

Appare un cartiglio di voci tutta la vita.
La guardi sparire come ossi di pesca
lanciati in cortile.

*

Te ne vai col sole oltre la casa
rotta, dove il bene di cui parli
è il nome rimasto sulla porta.

Amarsi conta pure questo iato

e mentre il giorno insiste, un’ombra
dentro l’ombra scende quasi fosse
un grido nella stanza vuota.

*

Come fosse amore delle mie braccia
tutto l’azzurro clamore del cielo.

*

Giuseppe Todisco (Foggia 1980) è cofondatore e codirettore della rivista «Avamposto». Ha esordito nel 2020 con la raccolta di versi Si prega girati di schiena (Marco Saya). Questo è il suo secondo libro.