puntoacapo Editrice 2024
Prefazione di Ivan Fedeli
Dalla prefazione:
Dove ancora non siamo nati si compone di tre parti, associabili idealmente a un trittico medievale, la cui cornice unitaria è rappresentata dalla codifica di un linguaggio altro.
La tensione che si percepisce è quella di una lingua che non sa ancora dire: la sua distanza è impotenza – “il grido che mi manca” – e implica un lutto simbolico che porti alla catarsi, purificando la parola stessa, rigenerandola. Ciò giustifica e avvalora le due anime dell’intera raccolta che coesistono, talvolta in modo antitetico: la tendenza visionaria, quasi profetica, espressa come mantra e canto, da un lato, e l’urgenza di un richiamo alla realtà, alla presenza rassicurante delle cose, con il necessario bisogno di una linearità espressivo-esistenziale, più volte ribadita, dall’altro.
Ne deriva una certezza: che il libro abbia forte respiro unitario e viva come organismo pieno, caratterizzato da un’entropia interna capace di indurre meraviglia, stupore.
Ivan Fedeli
*
Un viaggio esistenziale, da una postazione accoratamente sublimata, prossima al congedo dall’io: Danila Di Croce, mediante densa percezione intellettivo-sensoriale, tenta l’intesa profonda con l’essere e il suo flusso. Sulla soglia intuitiva di un agostiniano tempo esente, né anteriore né escatologico, ma teso alla piena presenza – a noi, abitanti della finitudine, perpetuamente negato –, la poetessa si mostra in acrobatica umiltà: votata all’ineffabile, apre stanze di esistente mediante variegata metaforizzazione, inanellando immagini fino al cruciale balzo inverso, di resa e consegna di sé: laddove il bello e il vero, lasciati fluttuare, non posseduti né interamente espressi, addensino nel bene, col nudo e vivissimo, puro assenso del cuore.
da: Dove ancora non siamo nati (puntoacapo 2024)
Ci sono vite da riguardare,
di fronte a cui tacere in ascolto,
come quando si cerca la sorgente,
chiusi gli occhi, nel fitto
odore del bosco.
Hanno il dono, certe vite,
di sfiorare il peso dei sassi,
di avviare 1l rimbalzo sciolto
a pelo d’acqua, così
– perché l’onda si allarga
e sorride se c’è un tocco che chiama.
*
Parla la natura, col suo idioma
misurato e onesto, con mille accenti
da seguire, in vibrante comunione.
Non sa tacere nemmeno il silenzio:
lo incardina sui corpi come a farne
leva per spingere in avanti il cuore,
per elevarne il tocco. E quello grida
il suo segreto, lo sprigiona al sole.
Ma io, che parlo senza il timbro adatto
a pronunciare senso, a incantare
il passo di chi arriva, io mi siedo
curva sulle mani e modulo appena
l’attesa, dell’inizio e della fine,
della resa vittoriosa al verso
che prenda parte al canto universale,
che mi riveli almeno il gesto dolce
di accordare il fiato alla stessa nota.
*
Talvolta sembra impennare il suo grido
e su due zoccoli scrollarsi l’estasi
del vento dalla schiena,
invece muto
è il male e non sa il verbo dei fuselli
che ordiscono pazientemente i fili
sul cuscino.
Lo sbuffo alle narici
fa come trottola che poi si inclina
sulla punta e sbraca.
Così non parla,
come quell’erba che calpesta e tace.
*
Ermetico il trattato sulle aurore:
ne traggo qualche spunto
e il rosa delle dita è già svanito.
Lontani i salmi
di lamentazione: perso è il rivo
antico delle lacrime
a concimare i giorni.
Anche il vocabolario
piazza in fila indiana
i lemmi e il cerchio multiforme
si smantella in pozzanghera
di voci.
Non ci si azzarda a dire che forma
ha il bello, di che ragiona il vero
e quanto il bene li avvicina.
*
Si teme anche il prodigio.
Troppo in alto si appoggia la bellezza,
e lontano, che a guardarla viene male
al collo. Più facile ignorarla,
sentirla estranea come lingua
sconosciuta da parlare. Più comodo
l’inganno dell’inconsistenza.
*
Nasco nell’attesa, nell’appuntamento
nuovo, insperato. Come nascono
gli sguardi a innamorarsi,
inconsapevoli e sfacciati,
in cerca dell’antica timidezza.
E con me nasce il giorno,
il suo fulgore sulle mani, il vento
tra le mura a dissipare polvere
e pensieri, il nome di ogni figlio.
Nasco come abete d’inverno, verde
di vita nell’incanto della neve.
*
Cerco un altro dolore
che non sia mio, che non mescoli il suo
grido al pianto della terra. È un cielo
troppo spesso da sorreggere questo
manto infeltrito di ruvidi errori
e le spalle pulsano spente.
Il giogo
dolce ha un suo universo da scoprire,
lontano, certo, assai lontano,
ma cosi aperto da salire ancora
dove altezza è il confine eterno
di ogni luce accesa, E lì il collo docile
s’incurva al centro esatto dell’amore.
*
Dammi un’altra lingua,
un gesto nuovo per ricominciare:
altro non vorrei
che sprema il fiato
per parole da durare a lungo
nella gola, da annidare.
Perché, vedi, non ho
che il canto per nascere
a due metri dal suolo,
anni luce da te.
*
Da ultimo lasciare anche il nome,
perché è lì che s’impunta la scarna
ipotesi di bene e il tarlo scava
dentro ai nervi la feritoia
del premio, della ricompensa
ai pochi inviti assecondati.
Lasciarlo in bocca al vento
che ne sfilacci il suono nelle valli
dove il cielo è più lontano e la vetta
distende la sua ombra
ed io che sono.
*
C’è un’obbedienza da esercitare
senza il governo angusto dello sforzo
o del rimpianto – un lento combaciare
d’estasi e distanze, di mani aperte
e di benedizioni – a quell’altezza
che redime la misura e a una terra
disgraziata che pure adotta il grano.
*
L’opera Dove ancora non siamo nati è risultata vincitrice del Premio Lago Gerundo 2023, sezione silloge inedita
*
Danila Di Croce è docente di Materie letterarie e Latino al Liceo Scientifico di Atessa (CH). La sua Prima raccolta poetica, Punto coronato (Carabba), è del 2011. Più recentemente ha pubblicato Ciò che vedo è la luce (peQuod 2023), opera vincitrice al “Premio InediTO – Torino 2022” e nel 2024 prima classificata al Premio “Vito Moretti”, terza al Premio “Città di Como”, quinta al Premio “San Domenichino” e finalista ai premi “Europa in Versi”, “Versante ripido”, “‘Guido Gozzano”, e “Città di Latina”. Con poesie e sillogi inedite ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti in importanti concorsi nazionali e internazionali. Suoi testi sono e presenti nel Settimo repertorio di poesia italiana contemporanea (AA. VV., Arcipelago Itaca 2023) e su Distanze verticali. Escursioni poetiche sulla montagna (Macabor 2024, a cura di Irene Sabetta).