Passigli Editori 2024
Prefazione di Giancarlo Pontiggia


Distacchi e detriti, torri di ghiaccio ed erti crepacci; e ammassi di risulta, scorie, frantumi. Decadimenti e ingombri, continue schisi affliggono esistenze umane che assistono, rinchiuse nella propria impotenza, al lavorìo di un male cieco e martellante: lentissimo e univoco l’impeto che tira al nero, per disgregare nel buio ogni bagliore. Aver cura della bellezza e di quel poco di luce che, a tratti, barbaglia, è l’atto d’insurrezione di Mauro Ferrari (Seracchi e morene, Passigli Editori 2024, prefazione di Giancarlo Pontiggia).
È un andare sghembo, a salvaguardia, uno scampare in affanno questo negozio perpetuo, gravoso, con le frontali furie del mondo, per chi sente il vulnerabile assetto della creatura, facile a desistere, a chiudere il volo. E a lato, a volte in noi stessi: gli abili, che tutto mettono a frutto, e trovano la bolina tesa dell’utile; o gli indifferenti, tratti ovunque per rassegnazione, per viltà; e infine i rancorosi dell’eterno affronto, ricevuto o dato, che coagula il male nei pozzi del cuore.
Il privilegio perde l’uomo come la sventura, se tali due poli della mala e buona sorte non si prendono per mano, nella carità: braccio terrestre della divina misericordia questo rinvigorire nello sporgersi, questo protendere lembi di sé imitando le verdi maestrie vegetali: le tenaci e lievi, le caparbie: “Intanto l’erba preme negli interstizi / creando un mondo più sopportabile / e l’umile genziana s’azzarda / con un eroico lancio di dadi / a urlare il proprio nome / al vuoto”.
Quanto corrobora la gloria della vita, senza potersi opporre ma ponendosi accanto al crollo metodico di ogni pinnacolo: perché le altezze e i picchi della materia, nei propri eccessi di brama e proposito, sono destinati ciclicamente a implodere nelle pieghe del tempo, per mancato basamento e sostegno, o monito di gravità.
Ciò che più appare tangibile, compatto e maestoso, frana con cupo fulgore, mentre nell’effimero indifeso, nel nudo impavido – l’umile genziana dall’eroico lancio di dadi, o il piccolo calice floreale, arrogante di giallo: così come accadeva nel prugnolo di Zbigniew Herbert – ecco balenare la sprezzatura dell’incauto, vero affondo nel sublime: la fragilità  nobilissima che si lascia percuotere “nei suoi pochi giorni / dalla furia fredda dei suoi dèi”.
Segni cifrati, accenni in sussurro chiamano, nell’opera di Ferrari, al malinconico disvelarsi di un celeste fortuito, non del tutto abbracciato: deposto come un fiore per chi lo voglia cogliere, ai piedi del mistero: “C’è stato qualcosa tempo fa / e la sua impronta ancora urla / sospesa nell’aria”.
Da allora siamo orfani, nell’attesa. Un groviglio in ombra detiene la centralità delle nostre esistenze, radicate in insondate tenebre e protese all’ignoto culmine, inerme alla ferita. Ma è questa mediana essenza, bifida e labile, né abisso né cielo, questo esistere smarrito, raggomitolato nell’amnio “di paure e orrori”, che lo Spirito investe di autocoscienza, pervadendo i cuori di ricordo e speranza: perché la nostalgia del bene è l’unica vera matrice stabile di questa nostra crivellata umanità.
Persino il Padre è fragile, per mancanza di amore e fedeltà, e a ritroso sembra voler rincasare nei suoi cieli, inesaudito: deluso dall’incompiutezza spenta del mancato Abramo: ciò che nella sua creatura eletta lo ferisce e depriva: “Abbiamo radici delicate, / fiori che il vento scompiglia e il nulla tenta”.
Eppure “tragicamente, crediamo nel domani”. È forse questo a dare coraggio al poeta: che continua, con feroce acribia, a cercare ragione e senso, sfiorando cose prime e ultime: puntando tutto sé stesso al temibile gioco di restare al cospetto di un noi inconfessabile: “Ci guardiamo sgomenti, / scrutandoci negli occhi: // chi siamo – cosa – / e chi è la vittima, chi il carnefice?”, o avvinti all’ipotesi del nulla: “ma dalla nostra fossa / vediamo brandelli di corpi / amici e nemici / che i cani del nulla azzannano forsennati”.
Nondimeno la risposta è nitida, inarresa: “vedere è immaginare”, proiettare il proprio bene sugli eventi, farlo cadere sul mondo come un’alba ottusa, foss’anche soltanto dai propri occhi: fasciandone i gemiti, medicandone le ferite: e proteggere “le cose minacciate dell’oblio, / il poco oro che ancora luccica nel fango, / i nomi abrasi sulle lapidi”. Tenere caro nel profondo ciò che vale, solo il vero: che nell’utile non ha peso, eppure è il seme di una continua genesi interiore: l’atleta cuore che ripensa ogni cosa nella luce della grazia, rinnovando l’esistente: “Nei giorni brevi e silenziosi / della malattia autunnale / avvampa il desiderio di un disgelo, / d’acqua che scorra al mare libera”.
L’opera di Ferrari è ricchissima di echi e rimandi crittografati, sia a precedenti sue opere – come nota Giancarlo Pontiggia nell’accurata prefazione – sia a un universo di conoscenze e affinità contemplative radicate nella tradizione letteraria e filosofica, ma senza alcun cipiglio di vana erudizione. Seracchi e morene è un gesto poetico elegante, coerente, a conferma di una sensibilità profonda all’umano e al suo ambiente, inteso come habitat ma anche come teatro di simboli.
Lavoro pregevole per tema, tono e stile, che ha in sé una musicalità lievissima, temperata all’essenziale, a corroborare una sapiente misura lirica, senza eccessi o digressioni emozionali. Il nitore lessicale, nell’apparente semplicità, testimonia l’indole scabra dell’opera e, forse, dell’autore, ma ha in sé una desolazione medicabile, e un’etica sincera. Seracchi e morene è una meditazione, in equilibrio tra sobrietà e intensità, sugli scoramenti dell’attuale, e a un tempo un decalogo per “commercianti di luce”: leale nel disincanto, non indulge alla retorica ma sceglie la via della speranza e della cura, nonostante tutto.

Fotografia di Paul Nicklen


*

Da: Seracchi e morene (Passigli 2024)

sezione: Sotto le bombe

Critica della ragion pratica
II

(e il muoversi di sbieco per venire a patti
con la furia del mondo, eludendo
il vento dalla parte assassina
che smorza e uccide il volo;

guardando invece sbigottito
l’arte di chi avanza controvento
con la giusta inclinazione,

o la saggezza delle foglie
indifferenti a venti e scrosci
per tacito consenso all’ordine
– o vile umile rassegnazione.

La rabbia fredda poi,
sentendosi tradito e traditore:
acqua che stagna in un pozzo
in cui rovinano le prospettive
e il male si coagula.

Un acquazzone già si preparava
all’orizzonte).

*

Lui

che aveva abbandonato casa,
un campo avaro da coltivare,
la madre che parlava di futuro;
la vecchia brocca per l’acqua,
due speranze e un mezzo sogno;

che in mare aveva perduto
qualche amico e un orologio,
le scarpe e due figli

che sulla sabbia ha lasciato
orme di mani e piedi,
il nome, un ciondolo, e poi
più oltre nella campagna verde
brandelli del suo poco

infine trasparente ed invisibile –

ed io, che esco con la spesa
le monetine in mano
la presa salda sul carrello.

*

Sezione: Seracchi e morene

I

Ma osserva la morena terminale
per apprezzare il lento metodico
lavoro di Shiva: il ghiaccio che sgretola,
il vento e la pioggia che rodono
istante su istante
mentre il muschio appone la firma
su contratti in bianco
e millenni nella gloria del silenzio
vanno lenti in polvere.

(Intanto l’erba preme negli interstizi
creando un mondo più sopportabile
e l’umile genziana s’azzarda
con un eroico lancio di dadi
a urlare il proprio nome
al vuoto

tra passi incuranti
e il gracchiare di un volo lontano.)

*

V

Dove il vento e la pioggia
martellano istante su istante,
dove la terra è un naufrago
sopravvissuto agli uragani,
la roccia un’ombra su verdi sfiniti,

squilla il giallo arrogante di un fiore
che si promette l’immortalità,

percosso nei suoi pochi giorni
dalla furia fredda dei suoi dèi.

IX

C’è stato qualcosa tempo fa
e la sua impronta ancora urla
sospesa nell’aria.

Nessuno però ricorda venti
a flagellare gli alberi né fiamme,
ma solo una strana quiete all’indomani
quando comparve la pietra
nel silenzio che piegava l’erba:
da allora è attesa insopportabile,
un lutto che non ci abbandona.

In questo lungo dopo
farfalle e marmotte infervorate
ancora dibattono di cause e conseguenze.

*

XVII

Lo sforzo sterile delle radici
che scavano verso un qualche abisso;

le foglie e i fiori protesi al cielo
per scommessa – trafitti dalle api –

e in mezzo, da qualche parte,
il grumo di paure e orrori
che ricorda e spera.

*

XXVIII

La luna è sul seracco, il padre altissimo
della morena che è la nostra casa –
un padre fragile, che lentamente
si allontana verso il cielo
e che può sciogliersi in un’apocalisse.

Abbiamo radici delicate,
fiori che il vento scompiglia e il nulla tenta.

Tragicamente, crediamo nel domani.

*

XXXV

Diversi tempi sopravvivono
in bilico fra terra e cielo
attorno a noi:

l’eternità stordita della roccia
che vagheggia diserzioni
ma un`angoscia quieta tiene in pugno,

l’ondata di marea delle generazioni
che tornano con nuovi nomi
anno su anno, urlo su urlo
– le mille stirpi effimere –

e l’orbita lentissima dell’alpe
che ci sovrasta fingendosi insensibile,
ma scivolando a valle

mentre il suo cuore si raggela
in coro con le galassie.

*

XXXVII

Nulla tradisce la loro presenza
indubitabile, un soffio
silenzioso che increspa l’acqua:
le forze dell’ordine
non hanno corpo né voce
ma semplicemente sono.

Ci guardiamo sgomenti,
scrutandoci negli occhi:

chi siamo – cosa –
e chi è la vittima, chi il carnefice?

*

Mauro Ferrari (Novi Ligure, 1959) ha pubblicato: Forme (1989), Al fondo delle cose (1996), Nel crescere del tempo (2003), Il bene della vista (2006), Il libro del male e del bene (2016), Vedere al buio (2017), La spira (2019).
Di grande rilievo anche il suo lavoro critico e narrativo. Ricordiamo la raccolta di saggi Civiltà della poesia (2008) e i racconti di Creature del buio e del silenzio (2012). Ha fondato e diretto fino al 2007 la rivista letteraria «La clessidra» e ha collaborato alle riviste «margo» e «L’altra Europa». Ha curato diverse antologie, tra le quali L’occhio e il cuore. Poeti degli anni ’90 (2000), Dove va la poesia? (2018) e Il posto dello sguardo (2021). Ha di- retto L’Almanacco Punto della Poesia Italiana, edito da puntoacapo e ora cura la sua evoluzione online, il sito www.almanaccopunto.com.
È direttore editoriale di puntoacapo Editrice. È membro di diverse giurie di premi letterari ed è stato direttore culturale della Biennale di Poesia di Alessandria; attualmente, presiede la Biennale Italiana di Poesia fra le arti. Come anglista si è interessato, con traduzioni e saggi, di poeti inglesi contemporanei. Suoi testi e interventi sono apparsi sulle maggiori riviste italiane e straniere