ilglomerulodisale 2024
collana La rosa del guardare, diretta da Franca Alaimo
prefazione di Franca Alaimo
con una nota di Daìta Martinez



[…] Sarà per questa combinazione contraddittoria e dolente di intime percezioni che l’amore più coinvolgente viene situato nella distanza, spostando il desiderio impossibilitato a concretizzarsi nella gestualità, in una zona di penombra dei sensi che vengono sostituiti da un fulgore intimo ma innocente che lo battezza nel nome di un legame fraterno, in un’accensione d’anima che devasta con l’immaginazione della tenerezza.
Lara Pagani ha certamente un ampio bagaglio di letture, e perciò è quasi scontato paragonarla ad altre autrici come la Plath, la Sexton, e, soprattutto, la Cvetaeva. Ma se certe somiglianze esistono, è anche vero che il suo forte temperamento e la sua tendenza all’eversione immaginativa la allontanano da ogni rischio imitativo, isolandola nella sua luce come nelle sue oscurità in una sorta di spazio creativo tutto suo.

Franca Alaimo



[…] un vortice linguistico che mai perde il suo baricentro di parola per offrirsi corpo e creato di una accorta filigrana di viti sporgenti dal nido delle lacrime per nascere e farsi affluente d’amore che in ogni sfioro ne rifletta il segno teso a sovvertire ogni sua possibile comprensione. Lara Pagani ha il passo urgente del corpo che trema laddove arriva l’intenzione del viso rivolto alla prima foschia del mattino quando ancora le stelle cingono degli angeli la luce sulla terra sospesa nella congettura di una storia.

Daìta Martinez

*

Un libro bello, questo di Lara Pagani, che fa il suo esordio poetico pubblicando in un luminoso asse di tutela tutto femminile (Le viti del pianto, ilglomerulodisale 2024, collana “La rosa del guardare” diretta da Franca Alaimo con la collaborazione di Daìta Martinez, prefazione di Franca Alaimo, con una nota di Daìta Martinez).
Poesie in cui l’amore, in ogni sua forma, acconsente a posarsi, talora a gemere con mestizia, talaltra a impennarsi in arcuati vigori, grazie a un versificare imperioso, nitido e onesto, che gemma da un cuore patentemente acceso, a tratti armigero, quasi insolente nel porgersi. È in questo amare – a un tempo prostrato e sprezzante, renitente al consono – che la poetessa si lascia sfigurare e trasfigurare: “passi e gli angeli si piegano, girano / le viti del pianto. Dai tuoi dolori / brucia una risata – dal mento d’oro / spunta al cosmo l’inedito profilo”.
Il rammarico del perduto è un fiore che rimane, a segnare il petto in trasparenza; e come ogni dono duole, avvinghiato – davvero vite del pianto – al proprio enigma. Ma Pagani ha anche il frutto, l’inafferrabile parola ardente, l’inattesa. Arrogante e commossa, lucida e tremante: viva.
La poesia, quella che sequestra e graffia, quella che riapre il costato e muove al pianto, Lara Pagani ce l’ha. Una carità guerriera che, in queste liriche encomiabili per ritmo, lessico e contegno – mai patetico, mai melenso – sembra pagare la propria esattezza nella verità dolente delle evocate angolarità. La benedizione che ha aperto il varco a tanta equilibrata tempra è quest’altare cui piegarsi, a sentire ancora il proprio nulla.
Pagani ha tutte le gradazioni dei toni e dei modi, e guida bene le sue ripidità, facendone dorsali e versanti condivisi, che risalgono il gelo del dirsi soli nella desolazione d’amore: prendendo invece parola, ed efficacemente onorandola, per molti.
Si passa tempo buono con questo libro, tempo di cura. La poetessa, con le sue sardoniche durezze, che si aprono senza preavviso in premure spietate, ci ricorda che ogni cuore smisuratamente innamorato è nella ruota degli orfani. Estraneo al visibile, per sempre mendicherà il suo nido. Avrà freddo, tanto freddo, perché non appartiene alla terra. Nel donarsi senza calcolo pare un alieno illuso, in ginocchio sotto la pioggia. Ma non è già più qui: la sua casa è nel grembo di Dio.

Willy Ronis, Gli innamorati della Bastiglia, 1957

da: Le viti del pianto (glomerulodisale 2024)

*

Di notte faccio il nido nell’amore
che ci siamo scambiati come sangue
di giuramenti e profezie, ascolto
il richiamo dei gufi. Non ho più
le mani per reggere un libro: gli occhi
riversano versi amati, sono artigli.

*

Canto il tuo corpo acquatico –
i polpastrelli senz’ombra
di grinze, le pinne chiare che sono
la tua chioma. Quando trema
la terraferma è il tuo respiro.

*

Ti sbocciano viole sulla schiena. Nulla
esiste che riesca a scalfirti, a strapparti
dall’ingorgo matto delle stagioni: nulla
tranne l’ametista che scorre dalla pianta
del tuo piede alla radice dei capelli. Solo
tu puoi recidere stelle, svernare chi sei –
sovvertire la corolla delle possibilità.

*

Dei tuoi dolori non fare parola –
tirare dritto fosse l’ultima prova,
l’ultimo incendio della tua figura:

anche questo sei tu, pianeta rosso
per orbite e per anelli che splendono
al dito, nera cometa e sventura
di tutte le solitudini, tu –

passi e gli angeli si piegano, girano
le viti del pianto. Dai tuoi dolori
brucia una risata – dal mento d’oro
spunta al cosmo l’inedito profilo.

Fotografia di Willy Ronis

*

Il filo che ci lega non è rosso.
Non stringe, non fa male eppure
lascia sui quattro polsi un lungo segno
invisibile. La scia di una cometa
al confronto mi pare una bugia.

*

Hai rigovernato il tempo, ti è riuscito
l’incantesimo: sono stata grandissima,
piccola, media, mediocre, ennesima.
Perché non potessi più confondermi
mi hai dato un nuovo nome, messo
un nastro al collo che nessuno vede –
e tiri. Così sono diventata cosa tua –
docile, assoggettata al nero. Ti amo
è dir poco, forse il contrario del vero.

*

Il momento che serbo è un salto limpido
dagli alberi nerovestiti al primo
dei venti giorni di luglio: cicale –

gozzovigliate finché non potete
più, finché resta solo il vostro guscio
ai piedi della quercia: dal crinale

accartocciate chiamano due voci –
l’oro finito al fondo delle cave.

*

Tu non ridi di come rido, tu
mi ascolti ridere: sai che scoppierò
in singulti come gli altri piangono.
Credo di averti amato per i primi
motivi del mondo, gli ultimi a sparire
insieme al corpo quando muore.

Fotografia di Willy Ronis

*

Alla strada che hai disegnato
di fronte a me come qualcuno
che ti spiega le vele e ti prepara
l’amore di una barca penso adesso
che muori in lunghi momenti bianchi.
Ho avuto la fortuna sul collo, la stella
che non brilla bensì trama sotto il ventre
azzurro delle nuvole logorandomi
in altalena la curva dei fianchi.

*

Ti tolgo gli occhiali, ti bacio: ascolta
il broncio della caffettiera, il debole
polso di questa camera se manchi.
Mi dici che non hai nessuno, niente
che ti reclami – ti chiedo allora chi sono
io, perché ancora mi cerchi. Il caffè
brucia sul fornello, proprio ora le tortore
dai rami hanno smesso di cantare.

*

Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste on line, tra cui «Atelier», «Poetarum Silva», «larosainpiu», «Limina Mundi», «Le parole di Fedro», «bottega portosepolto», «Di sesta e di settima grandezza».

(La fotografia è di Daniela Favretti)