Testimonianze critiche e antologia poetica a cura di Marco Ercolani
Macabor Editore 2024
Dalla prefazione: “Pensare l’oltre”, di Marco Ercolani
Morire, naturalmente, non è meglio di vivere. Ma chi interrompe la sua vita e ha a che fare con la poesia, deve vivere una doppia incandescenza: quella del suo dolore personale e quella della vocazione poetica. La poesia, come la vita, non immunizza e non protegge: espone. Ci consente di usare il linguaggio come una bomba innescata e non come un abito da cerimonia. Questo ci insegnano i poeti disperati e “imperfetti” che si sono tolti la vita, da Beppe Salvia a Nadia Campana, da Giuseppe Piccoli a Remo Pagnanelli, da Vincenzo Reta a Lorenzo Pittaluga: non si tratta di un cimitero di lapidi spente ma di un semicerchio di fuochi sempre accesi. […] Pur non promuovendosi più sul mercato letterario, questi poeti tengono acceso il fuoco che serve a noi per vivere ancora la poesia come stupore per la parola. Né noi né loro siamo diventati classici da antologia, licheni da museo, argomenti per tesi di laurea. Ma di quella dolorosa energia e di quel tragico destino, che in certi casi può essere chiamato follia, non dobbiamo e non possiamo fare a meno. Questa consapevolezza mi spinge a tratteggiare il destino di Lorenzo Pittaluga, che ha traversato arte e follia con uguale intensità, e con il quale la mia vita di scrittore e di psichiatra si è incrociata per undici anni. Con lui ho condiviso da sempre “insensate voglie di / uomini insofferenti / all’ordinario fluire / delle cose”. […] La poesia di Pittaluga ci sorprende per la sua voce intima e surreale, dalle continue variazioni timbriche. I versi non si appagano di una forma compiuta e ripetibile: sono alla continua ricerca di un vaso nuovo che li contenga, di una forma anche bizzarra che ne giustifichi l’apparire. Nell’incessante incresparsi di forme abita l’originalità, e l’inclassificabilità, di queste costellazioni” di parole. […]
In Pittaluga la vena grottesca, alla continua ricerca di soluzioni espressive, si mescola alla struggente nostalgia di un tu sognato. Il lettore riconosce un filo ma si smarrisce con l’autore, ritrovando tracce del suo smarrimento nel capriccioso annodarsi e snodarsi dei versi. Questa poesia ironica e visionaria, dalla sintassi discontinua e sonnambolica, ha abolito i nessi del discorso. Ma il discorso continua ad esistere, in filigrana, alla ricerca di una comunicazione – affannosa, maltrattata, confusa – ma perentoria nell’infelice squilibrio, nella scomoda asimmetria. […] Disincantato nello sviluppo onirico delle immagini, sorprendentemente naif in alcuni arcaismi lessicali, impudicamente sentimentale in certe “appoggiature” della voce, Pittaluga non è mai immerso totalmente nella sua materia linguistica, nella sicurezza
della soluzione poetica, nella versificazione risolutiva, ossessiva mente convinto che la “necessità” di cambiare rotta domini sull’esemplarità del testo compiuto. Orgogliosa della sua ermetica compattezza verbale, la parola di Lorenzo insegue quella sosta che il flusso ininterrotto dei versi le nega. Non può mostrarci, se non per rapide ellissi, il silenzio consolante di quella tregua, la remota possibilità di una vita reale, sempre allontanata e temuta: una vita, alla fine, isolata dentro il guscio di una sintassi stravolta, oscurata da parole straniate e astratte, simili a cortine fumogene. […]
L’idea poetica di Pittaluga, come osserva Elio Grasso, è quella di una “macchina perfetta e celibe, strutturata come congegno filosofico, in cui convergono i piani e le linee di un mondo unico”. È l’idea
di un poiein inarrestabile, inconsumabile, a cui solo la fine terrena potrà mettere un termine. Osserva ancora Grasso: “Una raccolta postuma di Lorenzo Pittaluga potrebbe risultare pressoché infinita”, perché, in effetti, non ha un punto d’arrivo, un momento d’approdo, questo suo soliloquio in stato di trance, questo “stato di ispirazione permanente” da cui, ogni tanto, come schegge, si distaccano le sue poesie – frutti necessari, ma passeggeri. Ciò che conta è il crescere irrefrenabile dell’albero. […]
Con le parole Pittaluga non ha riscattato nessun dolore. Non ha spiegato nulla. Si è solo “scoperto”. Il mondo è sempre pieno di “accartocciate grida” che cercano di sfuggire al silenzio. Lorenzo ha usato queste grida. Ha parlato ad altre persone con i suoi versi streganti, inconcludenti, surreali. E la sua lingua è aspra ed ermetica, come bizzarra ed ermetica è stata la sua vita, divisa fra il desiderio della santità, della purezza, del “tutto”, e lo sprofondamento in un’esistenza solitaria, maldestra, difficile. […]
Lorenzo si è perduto. Ma forse, per noi, a distanza di quasi trent’anni dalla scomparsa, è ancora, il suo, benché tragico, un modo di dire che la vita è straordinaria e va vissuta oltre la vita invivibile. […] Vengono alla mente i versi di Georg Trakl prediletti da Lorenzo: «Nube lunare! Nerastri cadono / selvatici frutti di notte dall’albero / e lo spazio si fa tomba / e sogno questa via terrena» (da Abbandono alla notte). Osip Mandel’stam, in un testo frammentario dedicato a Puskin e a Skrjabin, scrive: “La morte dell’artista, a mio parere, non deve escludersi dalla catena ininterrotta della sua opera, ne è al contrario l’anello finale, la conclusione. Notevole non solo per le dimensioni favolose che l’artista assume agli occhi del mondo nella vita postuma, ma perché costituisce in qualche modo la stessa sorgente della sua opera, il suo principio teleologico. Strappate dalla vita di questo creatore il sudario, e la vita scaturirà libera mente dal suo principio…”. Pittaluga potrebbe trovare qui, in queste parole, quella pace che non trovò in vita: “Diverrò vocale tersa, sillaba / alabastrina, parola che giunge / all’inganno dell’amore.”
[…] Nell’ultimo frammento dei suoi Diari del transito Alfonso Guida scrive: “Lorenzo era, in ogni verso, lo scalino di una strada costruita con le corde”. Con queste parole Guida si inoltra dentro quello che è il viaggio vero del poeta: essere scalino di una scala che oscilla, tesa a un crocevia mancato.
[…] Oggi, nel 2024, da una distanza temporale così lunga da avvicinarci ancora di più alla classicità anomala di Pittaluga, possiamo rileggere le sue poesie, edite e inedite, testimoniando l’enigma della sua voce con i commenti di vecchi e nuovi amici; ritrovando nostro un poeta tragico, beffardo, surreale, inclassificabile, incollocabile an che in una provvisoria storia della letteratura poetica contemporanea; un poeta sempre giovane, la cui inattualità coincide con la risonanza delle “anime strane”, estranee a ogni progetto razionale, esposte alla nuda e dolente vita, quindi potentemente reali, e la cui voce, come suggerisce Dario Capello, è sospesa “fra canto e sbarra mento”. Scrisse Lorenzo in vita (ma lo scrisse per noi superstiti): “Per te avvolgo pensieri postumi”.
Marco Ercolani
Dalle testimonianze critiche:
Elio Grasso
Fra l’invenzione e la realtà nella poesia di Lorenzo non c’è un territorio senza inizi, ma un fluire di variazioni toniche, più spesso ricche di attualità precise per il poeta che sapeva bene dove andare, anche se traballante sulla sua Vespa. Nessuna solitudine ha mai ammorbidito l’esperienza poetica di Lorenzo, la sua estasi “terrena”: egli aveva piedi saldi, anche se poi in un istante indefinibile la mente spiccava il balzo. E poi il volo. “Su di un piede balza l’angelo e poi, più certo della pioggia, / pettina il cielo con speranza, pressappoco”. Sognava “costruttori” ineffabili, personaggi che offrissero “lavori meticolosi”, che difendessero la parte più dura del cuore poetico, essendo il suo già oppositivo e concentrato al massimo. La sola implosione da lui subita, dopo il patto avuto con la poesia, lo scontro finale con la gravità terrestre. Era il 1995. Tutto il resto è stato la capacità altissima di espandere una rara forza poetica, come una nuvola d’inchiostro opposta al cacciatore subacqueo.
Gianni Priano
Certo che ricordo l’amore, dice il Cristo di Pittaluga, “l’amore non può essere dimenticato da chi tiene in sé la misura dell’infinito”. Amore e infinito sono indissolubili. Vivono abbracciati l’uno all’altro. L’amore specchia l’infinito. I poeti parlano d’amore perché parlano di infinito.
Marco Furia
La domanda implicitamente posta da Lorenzo non concerne il perché siamo, ma il che cosa siamo. La scrittura, per lui, ha valore soltanto se riguarda il qui e ora. Un senso, molto preciso, dell’attimo che annulla il tempo e, contemporaneamente, lo comprende per intero: questo è l’elemento capace di distinguere una poesia che non si preoccupa di esserci perché sa bene di esistere.
Vincenzo Guarracino
“Cancellare” il mondo e al tempo stesso “nominarlo”, o forse, meglio, nominarlo cancellandolo: è dentro questo cortocircuito, dispendioso e oltraggioso, che va letta, credo, un’avventura esistenziale e poetica molto singolare, quale è quella di Lorenzo, fatta di “parole rarefatte”. […]
Un’avventura vissuta all’insegna dello sperpero e della dilapida zione di sé, insomma, in un “percorso” che, come un vortice che espropria l’io di ogni sovranità identitaria, in un certo senso si descrive all’incontrario, da una “foce”, da una fine, che evoca (o auspica) un inizio: “cancellandosi” continuamente nelle parole assorbite dalla vita e dai libri, per farle rinascere, per “nominarle” nei testi, come urla, come graffi, come bestemmie. Cercando inquietamente un ça: il presentimento e il desiderio di un qualcosa sempre troppo alto e irraggiungibile (e soprattutto indefinibile), annidato nell’“enigma della voce” (in Debito), per appressarsi al “silenzio”, al precipizio essenziale nella cui intimità la parola si svela e vive.
Dario Capello
Sono poesie, queste che ho in lettura, dense di risonanze, di cerchi nell’acqua volti a produrre l’effetto di un magnetismo, di un’intensità indipendente dalla chiarezza o dall’oscurità del testo. Come dire che sovente è il suono (o il ritmo) che va alla ricerca di un “senso” (secondo la buona e sempre attuale ricetta di Valéry). Ma questo significa, in Pittaluga, saper usare anche quella parte del suono che crea un ritmo, cioè il silenzio. Per “silenzio” qui intendo più di tutto la capacità di stare sulla soglia, senza la pretesa di un dire troppo esaustivo. È quel silenzio di natura interrogativa che finisce per far evaporare il senso per accenderne altri, allentando o sospendendo i nessi di una logica e di una sintassi formale. Un silenzio che non è certo la negazione della parola ma un suo compimento e che non si esaurisce nei segni grafici (per quanto qui presenti) della sosta, della sospensione, degli spazi bianchi.
Francesco Macciò
Se ogni cosa, intorno e dentro l’uomo, sembra franare, regge questa sua identità – certificata quotidianamente attraverso una sistematica, sterminata produzione di versi che si incentra sull’io poetico come cifra totalizzante, in cui può confluire il mondo esteriore e trovare una qualche stabilità, per quanto oscillante e precaria, lo scacco esistenziale. […]
Così sulla solare, altezzosa rivendicazione dell’identità di poeta si innesta una percezione di sé in uno scollamento temporale, che è misura del deragliamento delle proprie scritture in una zona umbratile, in cui potrà forse riceverle un indulgente lettore. Una certificazione ultima del disfacimento del proprio essere e dell’opus poeticum sotteso alla tortuosità della propria esistenza, di cui noi oggi, in qualità di lettori, saremmo depositari e testimoni, se non fossimo ad accogliere queste scritture, nel loro “denso incantamento”, in un altro tempo e in una nuova luce.
Angelo Lumelli
Lorenzo Pittaluga, nella prassi del suo scrivere, mentre sembra tendere all’oltranza del significato, ai confini dell’illecito – ciò che rende la poesia una colpa unica, gloriosa – non rifugge, e più di qual che volta, da un’intesa sottobanco con le parole, una combutta tra compari, come se il male gli consentisse questo privilegio, un’eccezione della quale approfittare. Il linguaggio come amico ed alleato ingenuo è il massimo pericolo per il poeta e lo è per Lorenzo, tanto da non accorgersi di quanto esso soccorra il corpo o lo lasci al palo, di come porti in salvo e metta a debito, essendo infine l’esattore. A Marco Ercolani, colui che custodisce più di chiunque la memoria di Lorenzo Pittaluga – oltre che il gran numero di fogli e quaderni – ho detto, forse addirittura ho scritto, che mi avvicinavo con timidezza alla poesia di Lorenzo, perché mi sembrava di toccare le parole, pulsanti d’intimità, corporee, ombre spione di un corpo. Mi sembrò fosse in atto una regressione dalla parola al vivente oscuro, parole animali – con un senso tattile, tentatore – che esigevano d’essere toccate, come se l’unica conoscenza possibile fosse la presenza, sfidando il lettore ad entrare in scena. Spesso sono rimasto sconcertato, davanti al salto di un significato – che sembrava piano – verso l’orlo di un abisso, come in quei due versi di “Sorgente” (Poesie del primo giorno – 1994): “Sei uscito dall’occhio / buio che non scorse viso.” Si trattava di un linguaggio che chiedeva non comprensione, bensì partecipazione – una comunione riottosa, agitata. Come estremo limite chiedeva la rovina del lettore? Talvolta ho sentito l’affronto di queste parole, arrivate in primo piano, nascondendo ogni distanza, ogni moderazione – un gigantesco presente, totalitario, che non trova la misura abitabile, fino ad essere puro impulso, vacuità. Tuttavia si capisce come Lorenzo Pittaluga sia stato consapevole di questa dittatura del primo piano, tanto da schiodarlo, per istinto, dalla fissità che annichilisce attraverso una scrittura più scenica che sintattica, con mappe di oscuri accadimenti, parole/figure che tutta via mai s’allontanano dalla scena madre, l’inconsolabile.
Alfonso Ravazzano
Lorenzo Pittaluga apre, anzi spalanca le porte alle sue ombre e mentre le respira lo immagino, sommerso dalla propria sensibilità, giocare con quella lingua che lui stesso ha creato, cercandone i collegamenti fra il suo dire e il suo essere, frantumandone le barriere: ecco, Lorenzo lo immagino così, nudo nel suo elaborare meraviglie che abbiamo il privilegio di leggere. Leggere Lorenzo è come entrare in un punto strategico dell’inevitabile, la sua scrittura è una spiaggia di orme, bisogna seguirle con grazia per non calpestarle, bisogna costringere la nostra pazienza a respirare tutto quello che rimane respirabile.
Chiara Daino
Lorenzo Pittaluga è un Poeta. Punto. Quale bieca perversione può portare a recintarlo nella voce collettiva «poeti suicidi»? […]
Ribadisco, per quanto inutile, che carattere/carisma/catastrofi – sì! – influenzano l’Artista e viceversa, ma ridurre l’Artista alle sue patologie umane è una bestemmia. Si tratta di categorie. Il personale e il professionale si alimentano e si sbranano a fasi alterne, ma vedere un solo aspetto è mettere al confino. Una dittatura spocchiosa perpetrata da chi, come persona e come professionista, è nulla. E la «gora dell’eterno fetore» pensavo non fosse dimora della critica e della letteratura.
Francesco Marotta
Il poeta, di solito, dispone di un “laboratorio” nel quale prova e riprova la “solubilità” dell’enigma della voce, riconoscendo – perché ne ha uso e possesso – gli strumenti e la loro capacità di risuonare, la tonalità e l’estensione dei timbri utilizzati. In Pittaluga, invece, si ha la sensazione di un rapporto capovolto, a parametri rovesciati: è l’enigma stesso che si fa voce attraverso la corporeità/soggettività senziente del poeta, usata come cassa di risonanza e conduttore per manifestarsi – ma nella sua assoluta, pura “insolubilità”. […] dissemina[ta] nei testi sotto forma di ictus, di rifrazioni, di accumuli ingiustificati, di accenti distorti: quasi a voler dar conto delle modificazioni che il medium corporeo subisce, accompagnandolo o opponendo resistenza, nell’attrito di forze divergenti che lo attraversano.
Cristina Annino
Per me un poeta come Lorenzo Pittaluga è grande perché, leggendo le sue poesie, mi sembra di toccare un midollo spinale. Lui è andato in fondo alle cose visibili. Questo soprattutto mi interessa in un poeta, quell’attitudine – che non si impara leggendo, studiando, né campando cent’anni – a rifare coi sui versi la concretezza che vede. […] Per questo tutta la sua spiritualità, la sua visionarietà, ha la continua veggenza di un razionalizzatore dello spirito. […]
C’è una misura di tempo nei destini. Pittaluga ha detto tanto, in un limitatissimo numero di anni, ma di questi ha toccato poderosamente il fondo. A tal punto che non conta più cosa avrebbe o non avrebbe potuto scrivere, si entra nel regno delle ipotesi, e una qualunque previsione saggia può bruciare un talento. Ha detto quel che doveva dire nel miglior modo concesso. Non a caso, dove c’è fuoco o intensità speciale c’è velocità, rapidità, la giustizia fisica di un’autocombustione. Anche in tale modo inconsapevolmente tragico, Pittaluga ci ripropone il proprio dominio sul reale.
Alfonso Guida
Caro Marco, io penso sempre a Lorenzo come a un tuo figlio verso cui continui a correre, a braccia protese. Lo capisco. È umano, troppo umano. Nella mia vita non c’è stato né c’è nessun Lorenzo da amare, nessuno, voglio dire, come il tuo Lorenzo, nessuno da amare tanto. Nessuno mi si è imposto con tanta evidenza da non potergli negare uno sguardo. […]
La sua poesia mi sopravvive come qualcosa che sta al confine tra lo sperimentalismo perpetuo della follia e l’amore per la perfezione metrica… Se solo Lorenzo avesse studiato i libri di psicoanalisi e di filosofia che studio io e che sono salvifici… se solo avesse avuto la possibilità di organizzarsi, il tempo per scegliere… “Fui mai quella che scelsi?” (Amelia Rosselli)
Luisella Carretta
Lorenzo aveva trovato l’unica via “per essere” attraverso la scrittura. Era un passaggio verso la concretezza mentre, qualche volta, la sua mente vagava… I suoi versi erano fatti di sogni, frammenti e strappi che subito mi hanno attratta. […]
Nel 2002, incontrando le poesie di Lorenzo e conoscendo la sua storia, non ho potuto non comporre una serie di pagine incrociando immagini e testi dedicati a lui, che ho intitolato Contrappunto. I testi in corsivo sono quelli originali di Lorenzo.
Contrappunto (2002)
Lorenzo guarda
la morte accanto
riparazione del dolore
fuga dal dubbio
soluzione di una vita
pena quotidiana
la voce dentro insiste
non ti lascia mai
Qualche volta non la ascoltava
pensava al mare, al cielo
Non guardava più
il limite del balcone
—
Nella sua verità
trattiene il volo
cerca le intermittenze
della bora
presentendo la sua sferza
e – nel momento –
segue un suo pensiero
che tracolla…
Vai comunque
verso l’attimo in cui afferri…
—
A volte è solo un blu
solo così riesci ad attendere
sopportare gesti e suoni
luci e voci e riflessi opachi
—
Di cosa è greve
questa camera?
Null’altro che della sua scura
nudità
del suo non – essere
corpo vigile
del respiro interrotto
che non le concede
anima.
Camera nello sfacimento
di due metà inesistenti
Camera
dove vedo il nulla
—
Riappare la realtà
sembra inutile e vuota
—
Tornare giù
dove consegno
la mia volontà
di azzurro
Tornare giù
nei visceri
del corpo
—
Una figura desiderata
difficile afferrarla
La mente vaga
un vuoto
in un colore indefinito
Ricordi quel baratro
non vedevi la fine
paura e attrazione
un piccolo gesto
poi più nulla
solo l’aria sulla pelle
come una carezza
Antologia poetica di Lorenzo Pittaluga
da Poesie del primo giorno (in “Arca”, 12, 1994)
Consola
Apprendi la luce
dalla mano che carezza,
torna vigile come
fosse quella mano
a battere la porta
Ti canteranno,
alle volte,
sino a farti male:
torna alla luce
prossima all’affronto:
che vita ti tinga
nella pelle
sino all’ustione e nuova
e terminale natura ti sostenga.
***
Da Arca di fiume (Silverpress, 1992)
Campagna
Un sasso senza fionda
il fanciullo – indefinibile –
sputa nel dorato verde:
“Impara la sequoia,
il merito d’invecchiare
fra giacche fibbie sere”.
Prese poi mano al salce
ne formò un cesto
-era terra oceano vino
***
da L’indulgenza (Genova, Graphos, 1997)
Bacio
Diverrò vocale tersa, sillaba
alabastrina, parola che giunge
all’inganno dell’amore.
Tregua di questo volteggio
d’aironi – sinfonia delle
ere. Giusto percepito: un bacio.
Giglio di parvenza edenica
tra frutti di madre e sposa.
Pretende, è fata che vendica.
Paga la ragazza che inseguì
il sogno e si sfece balocco
di un uomo, del suo giogo.
*
Poeta
Cosa attendo? Cosa dardeggio
verso la mia regina? Trovo
carta, esprimo. E la tua musica?
Movimento dell’arto destro
che muove il lapis e presto
cancella il mondo manifesto.
Sono potenza e respiro. Sono
L’unico poeta uscito dalla
placenta della terra desolata.
Unisce al dono questa
corona, svia al semaforo,
urta – presto muore.
*
Dio
L’orizzonte, le sue tenie – vaste
cicatrici a disporre l’occhio
alla rete – rive, ancora specchi.
Eppoi imparo a starmi cieco
vedendomi visto dal nulla.
Informa. È un progetto di estasi.
Sonno. Allargano i futuri
segni a quarti fluttuanti
di dicembrina luna. Muoio.
L’alba mi redime. Il Dio
iroso erompe sul mio volto:
è fulgido, mirabilmente assente.
*
Scritture
Le scritture, le mie, naturalmente
nate postume, celano la forma
del riposo, del denso incantamento.
Versi da gogna nati per non restare,
per morire embrioni innalzati
dal mio ostinato orgoglio.
Leggimi di notte come io scrivo,
fallo pietosamente, con indulgenza,
perché, lo sai, sono nato sfinito.
Diritta non è la mia strada,
confuse le orme. Sulla selce,
calciato, è il mio volto incancrenito.
***
da La buona lentezza (Pasian del Prato, Campanotto, 1999)
La forma
La forma più complessa
che t’imbianca come neve
perplessa, versa in te
tutti i fonemi più splendidi,
la forma più completa
che bene si sa rimodellare
per avere una canzone propria,
l’atroce storia
del mio quarto di secolo
mentre riaffiorano smussati
e più vaghi i sogni
di stanotte e sempre
a disdegno per le lotte
già perse in partenza
e tu col chiodo speranzoso
che come la radio riaccendo.
*
Congedo
Con le sue parole
che non prendono l’osso del cuore,
parole rarefatte
che non schiudono le labbra altrui
in dolci fonemi. Ma io sono in un mondo
migliore, sono la foce
e la sorgente: sono Lorenzo.
***
Da Al termine di noi (I libri dell’Arca, Joker, 2009)
Préndimi per mano
Préndimi per mano, conducimi
verso la lentezza, segna i confini
del mio viso e l’attraverserà la luce
dove vive l’uccello non classificato.
Préndimi per mano, diventa la guida del ragazzo
che non ripeterà l’errore dei padri e dritto
agli occhi lànciami il tuo nome.
Préndimi per mano, se esiste
un regno vi entreremo a coda
bassa e apparirà l’ospite:
abbiamo avuto l’onore delle armi.
Préndimi per mano, taglieremo
le teste agli usurpatori, l’usuraio
che ci prestò la primavera è già scomparso,
sogneremo: e la lettera perduta sarà.
***
da Scostàti dal coro (Osnago, Pulcinoelefante, 2002)
Scostàti dal coro
Ora noi non abbiamo che noi – dobbiamo
scontare l’intrico di finitezze e mesti
orgogli: l’infinità non ci cerca:
siamo cantori stonati – senza
più sonore viole – scostàti dal coro.
***
Da: La musa che resta, Quartine 1992-1993
Morte per
Isola attorniata dalla voce
dell’oceano che disperde
più voci in madreperlaceo
gemito della sicurezza di annegare.
*
Cieco
Suono puro io che concepisco
la vibrazione di un cieco
che parla con l’ottava nota
ancora da bilanciare da riflettere.
*
Respiro
Dio propone ad arco teso
un dardo che ferirà il corpo
già deciso dell’impianto
fragile di gambe occhi e respiro.
***
Da: Sulla soglia 1991-1995
Slegando
Opinione di tranquillo verso l’ondoso,
la contraddizione slegata, il mare s’alza,
l’idea più molesta, il cielo più percettibile
in nuvole rischiose.
Mi guardi le mani: non sono io l’assassino
ho solo trovato, nulla scappa il suo rasoio,
vivo con le candele e portare luce perde luce,
mi manchi, vedo il tuo sangue nelle vene
e il sogno è legato.
***
La lira creativa radioattiva
Lascio.
Lascio a te la lira
creativa
radioattiva
quel che mi rimane.
Risieda
tra le tue membra
fresche.
Perdona il fardello di un presunto
perdente e d’un certo e sicuro
perduto.
Fuggo da un mondo distante
dal pubblico pagante,
dal mio corpo volante.
Fiaccola nella tenebra
celebra l’inchiostro.
—
(Rifletto, qui, all’etimologia della parola “cura”. Deriva da kharis, cioè “grazia”. Ecco: la grazia che ho ricevuto da Lorenzo sono i suoi scritti, che oggi “curo” come in anni lontani ho curato lui, persona viva. C’è, in tutto questo, un interesse profondo e completamente “disinteressato”. La “lira creativa radioattiva” è una metafora intensa e precisa. Spesso si pensa, e anche giustamente, che il “folle” sia chiuso nel suo mondo, asserragliato nei propri fantasmi, incapace di “donare”. Questa ultima poesia, che Lorenzo affidò dattiloscritta al giovane nipote come testamento definitivo, dimostra il contrario: “la lira creativa radioattiva” è un dono che genera energie rivolte al futuro, mutazioni sognate). M.E.
***
Lorenzo Pittaluga nasce a Cremeno il 29 aprile 1967. Il padre muore di tumore ai polmoni quando lui ha appena nove anni. La madre di uremia, quando ne compie quindici. Vive fin dall’infanzia con una zia anziana, molto religiosa, dalla mentalità bigotta. All’età di diciassette anni è ossessionato dal delirio di essere un santo. Di qualche mese dopo è il primo tentativo di suicidio. Scrive taccuini introspettivi e tortuosi, racconti simbolici, aforismi. Poi inizia a comporre versi. Alterna lunghi ricoveri in reparto psichiatrico a brevi episodi di traboccante attività poetica. Arriva a scrivere, in stato di esaltazione, nove poesie al giorno: lo fa a mano, perché non sa usare la macchina da scrivere; si rifiuta di correggere le poesie meno riuscite e le getta via. Fuma, beve, ascolta musica italiana, isolato nella sua stanza, le pareti coperte da immagini religiose imposte dalla zia. La prima plaquette, del 1987, è Arcobaleni tesi come redini (il titolo è ispirato a un verso del Bateau ivre di Rimbaud, “des arcs-en-ciel tendus comme brides”), un volumetto di prose brevi o brevissime fra cui appare un racconto, La crocefissione, dove la figura di un Cristo (o Messia) compare di colpo in una città di provincia, si siede sopra il paletto di uno steccato vomitando ammoniaca e poi, così come è apparso, prodigiosamente sparisce. Nel 1989 pubblica la prima plaquette in versi: Marginali annotazioni di un modesto ventriloquo di provincia. Nel 1994 i primi versi sulla rivista «Arca», dal titolo Poesie del primo giorno. Si mette in contatto con Mario Luzi, Milo de Angelis, Valerio Magrelli. Nel 1992 esce Arca di fiume, una silloge di poesie-paesaggio sulla sua terra natale. Nel 1994, per le Edizioni Campanotto, pubblica Le ore della sete. Con me, amico e psicoterapeuta dal 1982, condivide uno spazio quasi quotidiano all’interno del servizio psichiatrico dove lavoro; si parla d’arte, si scrive insieme, si fa terapia, si commentano libri. Legge molto, e disordinatamente: Trakl, Luzi, Campana. Negli ultimi anni di vita i sintomi psichici peggiorano: è sempre più depresso e si rifugia nell’alcool. Tenta di vivere, per brevi periodi, in alcune comunità religiose. È distratto, perplesso, allucinato. Smette di lavorare (faceva, saltuariamente, l’aiuto-pasticciere). I ricoveri si fanno più frequenti. Ha difficoltà insormontabili nell’organizzarsi la vita di tutti i giorni. Non tollera la solitudine, la mancanza di tenerezza familiare, l’assenza d’amore. Come scrive Cioran nei Sillogismi dell’amarezza: “Una vera vita quotidiana non esiste. Si vive veramente nel più o nel meno di noi stessi”. Così si trascina Lorenzo, assillato da un tormento che non accenna a placarsi. Mi confida un suo progetto: un libro illustrato dalle fotografie del fratello. Ma siamo già nel dicembre 1995. Pochi giorni dopo Natale, durante l’ennesimo ricovero, Lorenzo Pittaluga si toglie la vita. Nel 1997 esce postumo, per le Edizioni Graphos, L’indulgenza, a cura del sottoscritto e di Elio Grasso. Fra il 1996 e il 1997 «Arca» e «I Quaderni della Società Letteraria Rapallo» stampano alcune delle sue sillogi inedite. Nel 1999 le Edizioni Campanotto pubblicano La buona lentezza, su iniziativa del Comune di S. Olcese, con due brevi saggi degli stessi curatori del libro precedente. Nel 2009 esce la raccolta Al termine di noi con acquerelli di Claudia Sansone (I libri dell’Arca, Joker, 2009), sempre con interventi di Grasso e Ercolani. Poesie di Lorenzo sono presenti anche in due plaquettes Pulcinoelefante, a cura di Alberto Casiraghi: Corda in controcanto e Scostàti dal coro. Su rivista hanno scritto di lui Stefano Verdino (Prefazione, in «La Nuova Poesia Ligure», 4, I quaderni della Società letteraria Rapallo, 1996) e Marco Ercolani (“Pagine”, “Tellus folio”, “Segni e sensi”; “Ciminiera”, “Istmi” (7/8, 2000, numero speciale dedicato a poeti marginali dell’ultimo Novecento con il titolo “Tracce di vita poe tica”). Saggi di Ercolani sull’autore sono apparsi nei volumi in Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (Edizioni La Vita Fe lice, 2008). Hanno scritto, di Pittaluga, in “La dimora del tempo so speso”, “Blanc de ta nuque”, “Viadellebelledonne”, Cristina An nino, Leopoldo Attolico, Marco Furia, Alessandro Ghignoli, Ste fano Guglielmin, Vincenzo Mancuso, Stefano Marchica, Francesco Marotta, Alessandra Paganardi. Le edizioni Pequod, a vent’anni dalla morte, pubblicano La foce e la sorgente. Antologia poetica 1984 1995. Sempre in omaggio all’autore esce la rivista online “Sono la foce e la sorgente”, diretta da Marco Ercolani e Lucetta Frisa (prima serie, due numeri, 2018, in “Perigeion”; seconda serie, sette numeri 2019-2022, in “La dimora del tempo sospeso”). In epigrafe alla rivi sta vengono riportate, dai curatori, queste parole: “La foce e la sorgente è una rivista semestrale di prosa e poesia che ospita testi di scrittori moderni e contemporanei resistenti a canoni e classificazioni; libri in fieri, nuove traduzioni di classici, plaquettes riproposte, frammenti critici, sequenze poetiche, inserti visivi; come una corrispondenza virtuale protesa verso il suo futuro, inatteso lettore. Il titolo della rivista è tratto da un verso di Lorenzo Pittaluga (1967-1995)”.
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Marco Ercolani (Genova, 1954), è psichiatra e scrittore. Per la narrativa ha scritto: Col favore delle tenebre, Praga, Il ritardo della caduta, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte, A schermo nero, Sentinella, Turno di guardia, Camera fissa, Prose buie, Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser 1954-1956, Destini minori, Un uomo di cattivo tono, Senza il peso della terra, Storie forse incubi, Essere e non essere. Per la saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura, L’opera non perfetta, Il poema ininterrotto, Fuochi complici, L’archetipo della parola, Galassie parallele. Per la poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore, Nel fermo centro di polvere. I suoi taccuini sono raccolti in Sentinella e Nottario.
Partecipa al convegno internazionale “Bruno Schulz: il profeta sommerso”. Vince il Premio Montano, il Premio Aforisma – Torino in sintesi, il Premio Morselli e il Premio Smasher. In collaborazione con Massimo Barbaro scrive Paesaggio con viandanti, L’arte della distanza, Corrosioni. Nel 2020 ristampa Il mese dopo l’ultimo (Amazon independently published), con fotografie di Chiara Romanini e postfazione di Giorgio Galli. Con Lucetta Frisa ha fondato e diretto la rivista “Arca” e “I libri dell’Arca”.
Attualmente Marco e Lucetta sono redattori della rivista online “La foce e la sorgente” per “La dimora del tempo sospeso”. In coppia hanno scritto: Détour, L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane, Sento le voci, Il muro dove volano gli uccelli, Diario doppio e Furto d’anima. Di recente pubblicazione, per le Edizioni Medusa, L’età della ferita, una riflessione sui diari di Kafka. Con Angelo Lumelli nel 2023 pubblica l’epistolario Cento lettere, per i Libri dell’Arca di Joker Editore. Nel 2024 per Macabor Editore, pubblica L’Enigma di una voce, la presente antologia critica e poetica dedicata a Lorenzo Pittaluga.
Siti web:
www.marcoercolani.it
https://ercolani.art.blog/
Marco è anche qui:
https://www.pangea.news/ercolani-scritture-psichiatra-bignozzi/
https://www.asterorosso.com/2022/09/27/marco-ercolani-appunti-di-poetica/
https://www.asterorosso.com/2022/08/19/su-leta-della-ferita-di-marco-ercolani/
https://www.asterorosso.com/2022/07/13/marco-ercolani-dal-nero/
https://www.asterorosso.com/2022/05/11/per-sentinella-di-marco-ercolani/
https://www.asterorosso.com/2022/05/27/il-sacro-e-il-profano-di-leonardo-sinisgalli/
https://www.asterorosso.com/2024/05/07/laltro-dentro-di-noi-di-marco-ercolani/