Una prosa artistica inedita sull’Annunziata di Antonello da Messina
come quando una foglia si stacca dal suo ramo per darsi nel congedo
a una malinconia autunnale,
come quando un pugnale si strappa dalla carne e lascia la ferita,
benché aperta e sanguinante, desiderosa ancora di quella trafittura
Andando via da te con un tremore, lascio qualcosa di me, e cosa non saprei, portandomi via un non so che di bassa marea.
Una meteora lontanissima è Palermo là fuori, nel suo ottobre estivo, nella sua euforica, divergente ellisse, mentre qui tace il giorno consenziente e puro, di un silenzio esaltante1 qui germina ininterrotta un’altra stagione. Nella penombra, un nitore, una rarefazione. Là tu, paziente e vigile, in un riverbero di tranquillità, nel centro della piccola stanza, al centro di un mistero, recondita e assoluta al di là di ogni fine, di là da ogni lotta.
Un leggio, un libro aperto, una lettura interrotta, spezzata: parole che tentano il volo, la fuga: immemorate schegge-parole.
L’intensità dell’attimo catturato dalla tua mano. Fermato. Immobilizzato nella perenne forma ritmica d’una sospensione.
La tua mano destra protesa, aperta al modo d’ala di farfalla o di clìpeo, quasi a difesa dal mondo, dall’assalto di quella folata improvvisa ignota imperiosa – inudibile deflagrazione, parusia di venuta-luce – che, seppur dolcemente, scompiglia le pagine di una fanciullezza precocemente inconclusa.
Eppure il tuo liliale volto è imperturbato, in una compostezza affinata nella solitudine, parrebbe, priva di stupore, di emozioni, come le pieghe senza sgualciture del manto. Sei pronta al prodigio che sta avvenendo. Ecce ancílla. Sai già. Lo afferma, nella congiunzione con l’azzurro, l’altra mano sul seno, conchiglia di un taciuto infinito mare, gemma inviolabile da custodire, dove il silenzio del gesto si è fatto alfabeto d’assenso, tra desiderio e pudore il sottile nascosto batticuore, dove il gesto del silenzio è oramai incarnazione di dolore e amore, colloquio indissolubile con un’altra vita in un intimo, tenero intreccio.
Cosa cercavo venendo qui?
Qual era la voce che da anni da questa isola, crudele e amata, mi chiamava? Un filo che tirava, un prepotente fruscio di seta da seguire. Un appuntamento. L’appuntamento, troppe volte differito, doveva accadere: ho voluto come un sussulto che da sé stesso prorompe, ho voluto che accadesse, per toccare il rizoma del tuo mistero.
Eccomi al nostro incontro. Ne ho la certezza sarà l’unico. Atteso e compiuto, il per sempre. Il solo: faccia a faccia, sguardo a sguardo, un tu a tu, da silenzio a silenzio.
Ti sto davanti: ascolto, leggo, cerco di interpretare la tua postura. Cosa trattieni nel basso delle pupille? in quell’accenno di sorriso? quale geroglifico di giuramento dalle tue labbra chiuse?
Giunta qui davanti a te con la presunzione – o ingenuità – di accostarmi totalmente, fare mio il tuo segreto di ragazza, com-prenderti, decifrare l’annuncio che ti ha fatta così misteriosamente bella.
Oh, scioccamente m’illudevo.
La tracotante ragione inganna sempre chi vuole scavare, scerbare, disordinare la zolla sotto la pietra, a costo di profanarne l’humus.
Così eccomi qui, frastornata dinanzi a te, col sangue anelante, come davanti a una soglia di una sconosciuta alba. Le mie goffe caviglie vorrebbero sbrigliarsi dai lacciuoli dell’oggi, avanzare e, nella gioia della prossimità, sollevarsi, ma sembrano esitare, trattenersi dal varcarla.
Arranco, nella mente.
D’istinto allungo il braccio per sfiorarti. Le mie falangi hanno fenditure d’argilla. Si potrà mai toccare la levità, la purezza e l’arcano?
Ti sto davanti: dissipato il ronzio delle urgenze. Contro ogni attesa, un soffio disvela in me una resa, un sipario a inermi pensieri, oltre ogni pensiero.
Le tue fattezze, pulite e magnetiche, che ammutoliscono e dalle quali non riesco a separarmi.
Cos’hai visto in me? quale sete che io non sapevo, quale febbre? l’artiglio di bestia che neppure nel sonno zittisce?
Senza scampo, mi stai denudando. Non ho difese. Orfana. Spogliata dal grumo quotidiano del vivere. Io che mi porto sempre a questo miserevole assillo di scoprire, affondare nelle cose dimostrare dire specificare definire il dettaglio, ché s’inarchi a evidenza… impadronirmi del nimbo che soggiace alla realtà, alle sue innumeri labili forme.
E invece la disadorna e minimale tua semplicità trapassa, come fosse lama, qualsiasi ragionamento, fino a bucare la disperata vanità del capire.
Disancorate le burrasche. Svuotata. I piedi vacillano come se poggiassero su un’onda d’aria. Io, in un vuoto in cui vortica il tempo sbandamento.
Abbasso le palpebre in cerca d’una complicità: sento, entro nel tuo respiro che nella semioscurità della stanza s’allarga a estuario di lento immobile firmamento.
Tutta sei. Grazia. Evocazione di primigenia armonia.
Tu, altro dall’astrattezza, dall’irreale.
Tu sei vera, creatura immensamente viva, vita di eterno enigma, presenza palpitante, oblativa di quiete che, attraverso te, verso me, per me soltanto in questo istante, muovi.
Tu che il mio canto intendi sola:
in te si perde la mia parola
come nella foresta2
Mi lascio andare nell’ansa della tua mitezza, percorrendo, come nel ritrarti fece la rabdomantica mano di Antonello, le linee molli del tuo profilo raccolte in un baccello di blu. Riconcilio le vene riarse nell’ossificato calvario dell’esistenza; l’anima da una ferita aperta pare incamminarsi nel rifugio del tuo volto, corolla schiusa ad accoglierla. Approdo è il tuo sguardo. Qui posarsi, nutrita dal pistillo più fragile, basalto del tuo riserbo.
Così restarmi, dentro ciò che tu sei, oltre la tua fisionomia: silenzio sarmentoso di candore che scardina ogni greve cicaleccio, che infruttuosa rende l’aggressiva risacca del male; inspirare il bene che annidi, alveo di bellezza che esorcizza il buio stagnante nella sotterranea agitata prigione, risarcisce l’agonia di un’erba magra e risveglia quel bisogno antico e assiduo di tenerezza.
Indugiare qui. Sì, in te persa.
Rorida umiltà che nulla esige, tu.
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Grazia Frisina è siciliana d’origine, ma vive in Toscana. Già docente di Lettere nelle scuole superiori, ha pubblicato il romanzo A passi incerti (Mauro Pagliai editore 2009), il dramma poetico sulla Shoah Cenere e cielo (Carabba 2015, rappresentato al museo della Deportazione di Prato), le raccolte poetiche Foglie per maestrale (Il caso e il vento 2009), Questa mia bellezza senza legge (Sassoscritto 2012), Innesti (Nomos edizioni 2016, opera vincitrice alla XVI edizione del Premio Carver 2018), la pièce Stabat Mater, tratta da Madri (Oèdipus edizioni 2018, prefazione di Marinella Perroni).
Nel 2021 ha pubblicato la silloge Pietra su pietra, per Transeuropa.
È presente, con alcuni suoi componimenti, in varie riviste letterarie nazionali.
Nell’ambito del progetto La solitudine: il pieno e il vuoto (2012), organizzato dall’Associazione “Oltre l’orizzonte”, ha partecipato, come poeta, alla mostra Faccia a faccia con le opere di Edoardo Salvi.
Presso la biblioteca San Giorgio di Pistoia ha curato La gioia diventa un dipinto, incontro sulla poesia di Emily Dickinson, tra arte e musica (2014), e i dialoghi poetici Ricordi come raccoglievamo i narcisi sulla storia d’amore fra Sylvia Plath e Ted Hughes (2015).
Presso la casa-museo Guidi di Firenze ha ideato e curato il dialogo poetico Il mare nel vento – Una voce dentro l’altra, sull’amore fra Elizabeth Barrett e Robert Browning (2017).
Ha partecipato con i suoi testi alla serata di musica e poesia Avrei voluto scarnire il vento (voci di donne tra letteratura, storia, mito, fede e arte; dall’opera omonima uscita per la casa editrice Compagnia dei Santi Bevitori 2022, che ha ricevuto il Terzo Premio al Concorso Forum Traiani 2023); ha ideato e curato l’iniziativa culturale Per immaginifici pensieri, percorso artistico ed emozionale tra le sculture di Quinto Martini, presso l’omonimo Parco Museo.
Con la prosa inedita Quel firmamento ficcato nella nuca è finalista alla trentottesima edizione del Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano (2024).
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Note