Daniela Pericone, fotografia di Antonio Sollazzo


Passigli Editori 2024
Prefazione di Gianfranco Lauretano


Un’origine da “regni trascurabili”, un percorso che si chiarifica solo nell’intento: “ordine da ricomporre” che richiede un’immane potenza interiore, mentre lo sfondo non offre appoggio, e ogni edificata fortezza volge lo sguardo alla propria fine. È così che Daniela Pericone inaugura l’intima meditazione poetica di Corpo contro (Passigli Editori 2024, prefazione di Gianfranco Lauretano) opera di drastica bellezza: ampia apertura alare e teso rigore, in severa verticalità.
Come nella Serpe di María Zambrano, la vita si alimenta in automatismo, ramifica e preme di sé stessa lo spazio circostante, ripetendo il vincolo primario, il codice inciso nella durata: “non si arrende / all’annuncio della fine – / corre la miccia ancora accesa / con protervia di serpe / tra la cenere fredda”. Mentre l’insieme dirama e si espande, la singola creatura arretra, sopisce istanze e aspirazioni, tentando di proteggersi dalla cruciale compresenza delle altrui volontà: “per una sorta di onnipotenza / rinunciare a chiedere / restare lì dove ogni cosa / a forza di scartare / e levigare diventa sottile / elementare – somiglia / appena a una fede / la tua migliore illusione”.
Nondimeno permane, al fondo dell’umana matrice, un soffio temperato, originario o di ritorno, qualcosa che non avanza né ripiega ma ancora accende, fa dimora insonne dell’accogliere.
Perché c’è, in Pericone, consapevolezza piena della questione basilare: la dialettica tra spazi interiori assetati di senso e irresponsività del contesto: cimento mai esaurito del tenersi spiritualmente fervidi e operosi in assenza di chiare, rincuoranti vibrazioni di ritorno: “Ti ostini a spargere semi in aria / come una gioia inutile”.
Pervade l’opera una dura, marziale compassione, mentre prende corpo nei versi la notizia di una condivisa precarietà, sempre da reimparare, ugualmente strattonati da avvisaglie e sparizioni. Avvolti in vastità siderali che neppure s’avvedono del nostro rapidissimo balenare in esistenza, sentiamo addosso il gelo tutto. Eppure un albore continuo dorme nelle cose, quando tentiamo armonia in uno spazio sincrono, da chiamare casa: cose minute vengono in dono, coerenti, a render noto che, nella cura, eternità è assolutezza dell’istante.
Il grande equivoco: poter edificare qualcosa a nostra immagine, negli arcipelaghi della concretezza; ma il sapore ricorrente è quello di radici divelte, di borghi abbandonati per una sismica ostinata: che nega ogni incolumità, e ha il suo epicentro in gravi discernimenti e fatali consapevolezze. Ed è questa la condizione costitutiva: uno stato di sfinente allerta per ciò che, ignoto, nella sorte si annida; fasciati da un’incomunicabilità che segrega e mette all’angolo, mentre qualcosa, pietosamente, ci spalanca alla resa: “Questo è l’ordine secco presente / il corpo da far funzionare, il dolore / da controllare. Non si parla di niente / con nessuno, solo le frasi del bisogno. / Voltarsi verso la morte con leggerezza / farsi concavi e smisurati per il vuoto / che a grandi falcate avanza”.
L’esistere delle cose, coi lutti e le delusioni sembra via via affievolirsi, insieme alla fiducia in ciò che esse dichiarano: “Intorno i fiori e le piante / non esistono da molto tempo. / Nemmeno lui che ne aveva cura. / Erano tutto il bene rimasto”; e quando la chimera del reale diviene evidente, si è tentati alla passività: un arretrare malfermo, stordito, in balìa.
Tuttavia esiste un portamento che non è avanzare né arretrare, ma trovare la perfetta verticalità della pazienza: un bilanciamento degli affetti, una statica consapevole, immobile in volo controvento: corpo contro come etica privatissima, che non frana nel raggiro del futile, dell’ostentato, ma osserva improtetta e già salvata, da una distanza che sa sé stessa senza compiacimento: inscritta in questo, la lente disincantata e friabile della poesia.
È tale ponderata armonia che s’incarna nel verso, una “temperanza” – afferma Lauretano nella (splendida) prefazione – “che si situa tra l’espressione chiara ed espressiva di ciò di cui parla e il nascondimento, l’allusività dettata dalla discrezione della stessa voce”. Di questa poesia dallo sguardo discosto, disciplinato, si nota come essa consenta all’autrice “di soppesare ogni particolare, di innestare la sua musica essenziale, pulita, colma di sostanza, senza che un elemento, neppure minimale, intervenga a rompere il bilanciamento del testo, che spesso ha del miracoloso”. E ancora Lauretano nota come “equilibrio compositivo” e “profonda prudenza” di Daniela siano alla base del “fascinoso andamento” dei suoi versi, “che non è quiescenza ma slancio sotterraneo e continua riflessione su ciò che scaturisce da luoghi che stanno ai bordi delle immagini e dei pensieri”.
Dalla gioia inutile della prima sezione, un doloroso spargere i propri semi spirituali in terreno refrattario, sino alla sezione finale, contemplazione partecipata e profonda di magnifiche opere caravaggesche di denso significato esistenziale, Pericone fa un percorso nitido e risoluto, pericoloso: scandaglia il dispositivo del vivere, ne enumera le perfide cose vere, vi cerca con fermezza lembi di residuo umano valore.
La poetessa, da un’apparente ricognizione nei campi dello sconforto, ci porta infine a comprendere che fare resistenza secondo le umane categorie di pensiero genera sofferenza, perché stride con l’andamento muto e perentorio, in perenne metamorfosi, dell’universo: “L’attimo in cui / si compie ogni cosa / è accaduto accade ancora / fermo continuo definitivo”. Fulminea eternità che abita in ogni cuore: la notizia inesausta che più mima una salvezza è che la vera forza è interiore e silenziosa: un fiorire mite, nel durare povero e altissimo, di caparbietà potente; un’ostinazione quasi vegetale, attimo che porta in sé la matrice degli astri eterni.

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Da: Corpo contro (Passigli 2024)

Questo è il tempo che non mente
un calcolo esatto che non risolve
la sedia spaiata di chi se n’è andato
l’inutile allerta della sentinella.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, San Matteo e l’angelo, 1602, particolare

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Quanti anni ci sono voluti
quanto lavorio e spinte
controvento per vedere le radici
confitte nella sabbia
sfilarsi a una a una – lanugine
e spine un intrico sottile
così malnutrito, pensavi
non si sopravvive al sale
che trasuda dalle pozze marine.
Ora le braccia e le gambe
sono troppo cresciute
per la vecchia seicento
celeste di cielo – era il colore
dilavato dell’infanzia
la guancia spaccata del sole.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Concerto, 1595, particolare

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La casa sull’albero
getta un’ombra
lontana sulla terra –
un riparo di foglie
e la pioggia sulle ciglia –
nel poco avere dimora.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, San Francesco in estasi, particolare

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Confida nel tempo
incline a sottrazione
e mutamento – sia salda
la distanza dai tragitti consueti
dai segni inessenziali –
confonditi nel battito che innalza
sgretola e ripara – senza sosta
apprendi il fiato e la cera –
la poesia che guarda da lontano
accogli come una cosa tra le cose.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Suonatore di liuto, 1595-1596, particolare

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Un albero nasce al primo sole
nessuno ne avverte l’espirio –
è inciso il desiderio
ovunque si espanda la sua gloria –
la radice incendia la chioma
timidezza e tenacia
per millimetrico avanzamento
aereo e sotterraneo – la forza
della terra spoglia di suoni umani
riassume i fuochi stellari.

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Dopo il crollo ascolta i segnali
il buio è meno buio, il dolore
non più acuto, o forse meno ostile.
Anche lo spreco delle nostre vite
non sembra così grave, una variabile
fisica tutto sommato irrilevante –
la maglia rotta nella rete
delle possibilità.

Miichelangelo Merisi da Caravaggio, Buona ventura 1593-1594, particolare

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Un cesto di vimini
ricolmo di frutti e foglie
il turgore del frutto appena colto
la mela bacata le foglie giovani e verdi
accanto alle vizze e risecchite –
la vita così com’è
l’esuberanza
                   la mutevolezza
                                          la finitudine.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Canestra di frutta

*

Levarsi come
per una smania improvvisa –
le lunghe notti senza sonno
prendono forma vanno
a placarsi sui fogli.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, San Gerolamo scrivente, 1605-1606, particolare

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Daniela è anche qui: https://www.asterorosso.com/2022/08/11/da-la-dimora-insonne-di-daniela-pericone/

Daniela Pericone è nata a Reggio Calabria nel 1961 e vive a Torino. Le sue precedenti pubblicazioni in ambito poetico che hanno ottenuto diversi e importanti riconoscimenti, sono: Passo di giaguaro (Il Gabbiano 2000, nota di Adele Cambria), Aria di ventura (Book Editore 2005, prefazione di Giusi Verbaro), Il caso e la ragione (Book Editore 2010), L’inciampo (L’arcolaio 2015, prefazione di Gianluca D’Andrea e nota di Elio Grasso), Distratte le mani (Coup d’idée-Edizioni d’Arte di Enrica Dorna 2017, postfazione di Antonio Devicienti) e La dimora insonne (Moretti & Vitali 2020, postfazione di Alessandro Quattrone e nota di Giancarlo Pontiggia). Sue poesie sono tradotte in diverse lingue; del 2023 è la plaquette bilingue Lumină scrisă / Luce scritta, con traduzione in romeno di Eliza Macadan (Bucarest, Cosmopoli). Scrive testi di critica letteraria ed è redattrice di riviste e siti dedicati alla poesia.