CartaCanta 2024
con una nota di Davide Rondoni
Solstizio, punto di somma declinazione dell’astro più lucente sulla sfera celeste. Punto rilevante, momento nodale, culmine prima del mutamento. Istante sospeso, virtualmente immobile, dopo l’addensarsi multiplanare delle considerazioni, il collimare delle analogie.
Le vie di transito, i cammini spesso aspri e travagliati, di cui parla Cinzia Demi nel suo Solstizio dei sentieri (Capire Edizioni 2024, nota di Davide Rondoni), sono quell’intrico di sconfitte, travisati orizzonti, dedali interiori che disgregano l’individuo, sottraendogli compattezza e intenzionalità: l’essenza più pura, vocazione a essere, è sfibrata dai miliari abbagli dell’umana esistenza, e i giorni appaiono confusi e oscuri. Laddove il sogno, che tutto avvolge, è quel senso d’illusorietà, quello smarrimento nella molteplicità, che ci fa percepire scissi, in balìa, fino a trarci alla necessità di nuove coordinate, di più leali interpretazioni: posata ogni lusinga dell’intelletto, risentire la vita come identità compatta e radiante, unificata nel bene.
Isaia 26:3: “A colui che è fermo nei suoi sentimenti / tu conservi la pace, la pace, / perché in te confida”.
Il male, afferma Massimo Morasso in L’obbedienza, vertiginosa meditazione dedicata – tra le altre cose – alla pala d’altare di Issenheim ad opera di Matthias Grünewald, è “forza concreta della negazione”, “disumanante lavorio che aspira alla separazione fra l’ideale e il materiale”.
L’umana creatura, assediata dai rovelli, afflitta da silenzio e passività interiore, cedendo alle quotidiane malìe della “rappresentazione” di sé, si disperde in fatue, apparenti libertà, perde di vista la propria essenza: che ha da essere, invece, nuda e perentoria, un diamante che non conosce maschere e scissioni; e deve praticare, anzi, il quotidiano ufficio, arduo e impopolare, di assenso ontologico al più vero sé. Paradosso di adesione fulgida alla propria matrice nucleare: che è diniego al mondo, nell’umiltà della spoliazione: “la croce sul punto / più alto è vicina / si rarefanno i cespugli / l’aria punge come spine / come forza celeste ti attrae”.
Il solstizio è quel punto in cui il sole, idealmente, nel suo moto apparente lungo l’eclittica, si ferma, trattiene il respiro. È qui, nel vuoto di una stasi, che il percorso si dipana, e la voce interiore risuona. Non svela, ma rievoca, illumina, dà accenni di senso e nuova profondità ai numerosi indizi che il fato ha disseminato lungo la strada. Fa inventario di ogni oscurità, di ogni lucentezza, di ogni preziosissimo inciampo che abbiamo segnato sul cammino: amando, confidando, reclinando il capo nella resa. Solo quando siamo feriti, piegati, allora acconsentiamo. Perché è nel “crollo delle fortezze” che “ogni indizio / porta al palazzo / di scale e vetrate col / custode che accoglie / ascoltando la voce”.
È semplice il bene, è saldo. Il solstizio è quel brano di silenzio che seda il caos della moltitudine, e ne fa sguardo limpido, a fuoco sull’infinito: l’esserci chiassoso, lo smarrito protendersi, per un istante si astiene, e riceve in dono un bagliore di senso; che poi dissolve, deponendoci nuovamente nel dubbio: questo l’addestramento quotidiano al limite, l’esercizio mai concluso della fiducia: “delle mani la / tortura della fede / l’ultimo guizzo di / rosa che sale dal / monte la sola scelta”.
E come in un solstizio planetario, nel vertice immobile in cui ogni rivoluzione orbitale – reale o apparente – s’arresta, ebbene il verso poetico, nel Solstizio, spesso attende, con pazienza, di posare il senso nell’unità metrica successiva: nella cura, nella precisione: mediante quegli enjambement che tratteggiano un indugio, una “timidezza”, come rileva Davide Rondoni che accompagna.
E così, se esitazioni e impacci, perplessità e goffaggini si riaffacciano più screziate a venare la compiuta consapevolezza, e si fanno via via più tenere e nude quanto maggiore è il vissuto, ebbene strugge in Cinzia Demi questa dolcezza scandita nell’obbedienza del disegno ritmico, nelle strofe – spesso pentastiche – miniate di finezze timbriche e assonanze, ma pulsanti di accesa commozione: “della miseria d’amore / porti con te il pallore delle / gote il latte dei denti e / il martirio della caduta è / solo verginità di un’ombra”.
Un soffice languore affiora dal riserbo delle architetture: esercizio del limite, anche questo, che non pare mero rigore stilistico, ma personalissimo intento: un femminile, delicato e grave, pur sorridente, incedere tra gli affanni: una fermezza nonostante.
Si vede tutto, in Demi, questo Solstizio dei sentieri, chiave di volta di un inerpicarsi ad amore garbato, e così fattivo: che nel suo lavoro di poesia s’incarna e spazia, a molti donando, e facendo della letteratura un gesto simbolico, una sfida esistenziale di scambio e reciproco ascolto tra esseri umani.
*
venne in un’alba d’estate
in compagnia di ginestre
accese di risate
nel pudore delle
foglie nella linea lontana
del mare una rosa nasceva
nulla sapeva l’erba ricca
di genziana
il volo del passero la
stella che già si intravedeva
non si pensava allora
a quest’amore alla durata
della scommessa silenziosa
solo si recitava
un rosario di passi vicini
nei muri rustici di pieve
*
non farmi perdere
neanche una parola
del tuo annuncio non
la più timida non la più
in penombra sulla tela
non farmi perdere
i tuoi spruzzi nel
maestrale non il bianco
della spuma non la
bruma del volto
invernale
sei tu il mio quadro
variegato sull’amore
il mistero che l’accoglie
lo stupore esagerato
*
siamo tentati dalle sponde
dal moto delle onde
dal pianto dall’ombra,
quali forma di passanti
fiutiamo il movimento
ci affanniamo
nei grembi delle madri
rotoliamo nelle piazze
delle gioie laceranti
ci sdraiamo amanti
diversi dei giorni
mentre pulsano le ore
nelle caverne dei
graffiti nelle tombe
dei re sui piedistalli
dei martiri e il circo
mediatico di chi ci
stana dal letargo
di chi ci lascia una
parte di vita appesa
al rovesciarsi
dei legni e degli imperi
segna la conta dei nomi
persi stranieri nei nostri
pegni nei nostri cieli
*
ma è alla sera
nell’ascolto del
soliloquio dell’ultimo
merlo quando si
assopisce il chiarore
ai piedi del muro
che ritornano le tue
visioni il crollo
delle fortezze il
secco camminare del
vento e ogni indizio
porta al palazzo
di scale e vetrate col
custode che accoglie
ascoltando la voce
*
all’ora di cena
quando la lampada
infiochisce i contorni
tu diserti i giorni
il possibile spazio
delle mani la
tortura della fede
l’ultimo guizzo di
rosa che sale dal
monte la sola scelta
che conta che
non ti fa cedere
mentre spranghi la
porta al sogno che
lieve la riapre
*
Cinzia Demi (Piombino), vive a Bologna. Laureata in italianistica Dirige con Giancarlo Pontiggia la collana Cleide (Minerva), cura la rubrica Missione Poesia, Altritaliani, è caporedattrice della rivista cartacea Menabò (Terra d’Ulivi). Sue pubblicazioni sono uscite per: Prova d’Autore, Raffaelli, Pendragon, Puntoacapo, Carteggi Letterari, Minerva, InternoLibri.
È tradotta in numerosi Paesi ed è a sua volta traduttrice. Ha ricevuto dall’Académie Mihai Eminescu la “Médaille pour ses mérites dans la diffusion de la culture universelle” le “Prix Special pour l’excellence de sa création” (Craiova 2019, 2020) nonchè la Nomina a membro titolare de L’Académie Tomitane di Costanza; il Premio Internazionale Camaiore per Corpo impossibile di Attila F. Balazs, da lei tradotto (2021); il Premio Narrativa INPS per Voci Prime (2021) ed è presente su Rai Cultura Letteratura. È presidente dell’ Associazione Culturale EstroVersi APS.