Anterem Edizioni 2023

con una nota critica di Maria Grazia Insinga

Se nascondi il tuo volto, vengono meno,
togli loro il respiro, muoiono
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.
(Sal 104: 29-30)



È un soffio la vita, rûah che fa respiro, arioso slancio che trapassa e muove, dando estro e intento. Il Gheppio, “rapace sine pietate”, angelo ripido, imminente sulle “anime-agnelle”, incarna lo sbuffo che vivifica, il vigore che solleva e sospinge: nel Cacciavento, la più recente opera in versi di Enrico De Lea (Anterem 2023, con una nota di Maria Grazia Insinga).
Animale rapido e cruciale, falco che trasfigura in movimento: dacché è fermo nel sole, l’arco delle ali spalancato come un’abside di luce, “che non cunta e punta / e sospende, a spiritosanto” , accade poi rapidissimo come “ala e getto e tuffo”, e s’incarna nelle prede, “popolo delle case”, a “nera salvazione”: scuote e sovverte, destando mette a repentaglio.
“Questa mattina io còlsi il prediletto / del mattino, il delfino del regno / della luce” canta in esergo, rivolgendosi al suo Windhover, Gerard Manley Hopkins: lui, instancabile scenografo dei fulgori del creato, maestro dei sensi soprannaturali, dell’erotica pienezza degl’incanti con cui Dio gioca nel mondo.
Così De Lea è innamorato di questo spirito in movimento, di questa essenza così elusiva e lampante, così fatalmente carnale nel ridare fiato alle “anime-pietre”, alle “anime-piante”: a reinventare continuamente il corporeo e lo spirituale, il contingente e l’eterno: “l’aria che frolla sotto l’ala e scende, poi, / in picchiata, vuoi o non vuoi, / finché non si scorga non si veda / carne della necessità / nudo cuore del mondo, della preda”.
Il rapace che divelle e commuove a volo radente ciò che è spento e reclinato, arreso nella stasi di un monocorde sopore: paraclito e predatore, il gheppio, “lu cacciaventu”, sa radunare ogni refolo di brezza nelle ali, arco ampio e aperto di fissità nel sole; poi farsi precipite, e senza remore sollevare le anime come foglie nel mulinello: facendone gioco di forme, linea d’espressione del possibile, cangiante dettato della durata.
Inetta e incolta narcosi dell’essere, quest’esistenza fioca, ovattata, che non sa più l’adesione al brado, all’“estrema santità dei lupi”, alla radicalità del vero che accade attorno: inguardato, immeditato. Sarà forse un “infinito padre jonico” o una Theotókos di barbaro amore, a svelarci ciò che è nudo di luce, l’aperto esistere in questo genoma spietato, tutto verticale: “una carne un nulla un tempio laconico”.
Quando oscilla e tintinna, il gheppio pervade il vivente facendone capitombolo, conversione alla fiamma dell’esserci nel tentare parola: la creatura di cui il Falco tinnunculus fa preda e scempio, riceve senso e presenza da qualcosa “che innatamente /dal noto, dall’ignoto accade”, riceve il battito “di un cunto a dispetto di scanto, / che mima un canto fermo senza frase, / che nelle carni, anime di carne, svela il Santo”.
Scrive, con elegante percezione, Maria Grazia Insinga: “La terra di De Lea, abbarbicata sul Monte Sant’Elia, è terrazzamento linguistico, principio ed eredità spagnola e araba che biforca in una lingua dallo spirito omerico e, insieme, contemporaneo. Una cartografia peloritana che svela la ‘trovatura del richiamo’, il tesoro vegliato per l’eternità dalla principessa sul Monte Scuderi. Tesoro-trovatura della lingua intesa come costante invenzione dell’eterno, come un filare, torcere e biancheggiare il filo che riporta a casa, all’unica patria: il linguaggio”.
La poesia, dono chiaroscurale, fa ambasciate di splendore e spavento; e, come il cuntista, tesse trama e ritmo, lasciandosi scandire dalla potente metrica del cosmo: per muovere il dire tutto fonico e guizzante che sgomenta i tracciati semantici. Il poeta, infinitesimo, nella sua voliera di libertà, ebbro della sua miseria, danza d’assoluto: pulsa di qualcosa che non sa, che non capisce.
De Lea dice bene – è musicale il poeta, arguto, nitidissimo – con passo leggiadro, e senza retorica, l’incantato dissesto, la “nera salvazione” della poesia. Una piccola pentecoste, che fa vibrare i cuori di vertigine, al passaggio del soffio.
In un’ambiguità artisticamente voluta, intenzionalissima, col quel sacro cenno che aleggia impalpabile, da tempo immemore, su ogni oscurità (Gen 1: 1-2): così accanito nel suo bene arcano, l’imprevedibile che viene dai culmini, da candori inobliabili, a raffiche auree. Adorabile di vastità, luminescente di urgenza, Terzo Nome tra padre e figlio: l’amore vivo del suo passare, che pervade e scuote le anime, interminatamente riaccese, in continuo esordio, a pronunciare il reale.


Fotografia di Paul Reid



Da Cacciavento, Anterem Edizioni 2023

Se guardi, tutto il mondo è addolorato
se guardi, all’alba i volti del prossimo
si fanno assenti e scuri,
fuori dal sonno, intenti, col peso del creato –
coltivano degli orti dietro i muri.

*

Ora s’attende solo un vento d’acqua
che anneghi i vincitori eterni,
che riempia il fiume alla sua bocca
e accenda fioriture ai nostri inverni.

Fotografia di Paul Reid


*

Penso all’estrema santità dei lupi
Che annusano l’erbe d’alte campagne,
Che muti squarciano carni dei tempi cupi,
Che ululano dolore senza scusa senza lagne.

*

Di quanto non sappiamo ci dirà forse
Un infinito padre jonico,
Ci dirà una madre d’amore senza pietà,
Una carne un nulla un tempio laconico.

*

Acconciati alle suppliche a un paesaggio
All’ingresso del Tempio, usciti dall’inverno,
Alle anime-pietre, alle anime-piante, nel loro raggio,
A una costante invenzione dell’eterno.

Fotografia di Paul Reid


**

Da remote, vicine, terre incognite sgorga,
All’intrasalto accade tra io e noi,
Parola che ricorda e non ricorda,
Solito carro dinanzi ai buoi.

*

Saperi d’acqua e di parola, cosa inutile
e acqua – monte-madre.
e acqua – padre-Stretto di mari, al culmine,
ci siamo, di qualcosa che innatamente
dal noto, dall’ignoto accade.

Fotografia di Paul Reid


**

A nera salvazione, a predazione alcuna
nel peso della luce si sfilano nel volo i cacciaventi
versi nella scostanza, nella dolenza, nella cruna
del campo solo, della vegetazione di più genti.

*

Giorni-corpi saldi, soldati combattenti
In fila a turno ciascuno all’arma bianca,
Neonate anime-agnelle, prede ai cacciaventi
Nel volo eterno, nel giro che non stanca.

Fotografia di Paul Reid


**

Alle anime accade, popolo delle case,
di un cunto a dispetto di scanto,
che mima un canto fermo senza frase,
che nelle carni, anime di carne, svela il Santo.

*

Non si può, oltre la voce muta, la perduta
che scrivere ambasciate a canto e scanto.
ambasciate d’amore onde sia sia,
antenna sopra mari, in urbe e senza d’una méta
o da una pianura, a cutra e a coperta a un vento.

Fotografia di Paul Reid


**

Stretti all’abbandono all’eterno giro
di giostra, al carro senza tiro,
si torna al luogo, paese chiaro fondo
primigenio di luce, si rinomina il mondo.

**

Sempre nell’aria delle ali
ampie al paesaggio, gonfie, piene
ha il cacciavento retaggi
del padre e della madre, e sono il tre,
ché in sé un olimpo più alto contiene.

Fotografia di Paul Reid


*

Enrico De Lea (Messina 1958), vive in Lombardia.
Ha pubblicato: Pause (Edizioni del Leone 1992), Ruderi del Tauro (L’arcolaio 2009), Dall’intramata tessitura (Smasher 2011), Da un’urgenza della terra-luce (Ass. La Luna, nella collana diretta da Eugenio De Signoribus, 2012). Le plaquette Piccoli trionfi (Gattili 2012), Suffragi del bianco (2014) e Sarmura (2015), per Officina Coviello, Milano. Nel 2016, per Vydia editore, pubblica la raccolta La furia refurtiva, finalista al Premio Montano. Presso Seri editore, nel 2022 pubblica la raccolta Giardini in occidente.
Ha pubblicato sulle riviste «Wimbledon», «Specchio» (de La Stampa), «Sud», «Atelier», «Tuttolibri», «Poesia», «Registro di Poesia», «Caffé Michelangiolo»; ha pubblicato altresì nelle antologie Poesia di strada – Licenze Poetiche  (Vydia 2011 – Seri 2018), e Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – per Emilio Villa  (DotCom Press edizioni 2013).