puntoacapo editrice 2022

Prefazione di Vincenzo Bagnoli

Fondarsi come soggetto è un’illusione: la singola esistenza umana è entità plasmabile, non primaria, lontana dall’essere autodeterminata. Unico atto fondante: il cessare, quel lasciare e lasciarsi in sparizione che Enzo Campi, con piglio derridiano dice “désistance”.
To touch or not to touch (la désistance) – puntoacapo 2022, prefazione di Vincenzo Bagnoli – è opera in versi d’ampiezza teoretica, estesa scaturigine, emanazione nel fluire. Tela ad andamento poematico, possibile emblema di una Chōra: platonicamente intesa come materia preesistente, sostrato, «ricettacolo invisibile e senza forma» (Pl, Ti. 49a) di un divenire che ha la mutevolezza del fenomenico, la perentorietà dell’intelligibile.
Per Bagnoli, il lavoro di Campi è, tra le molte cose,  Theatrum ingenii che aspira all’aggregazione sintattica come arte-fatto, installazione, fenofisicità; arabesco inesausto di plausibile derivazione encefalica profonda – quasi tono neurologico basale – che delinea la frenesia e lo stallo, lo sconcerto dell’uomo nell’attuale inabitato fragore, la spaventosa compresenza dell’innumerevole, nel simultaneo dissolversi di tutto.
Lo sfondo, per il vivente, è un coacervo di voci che tentano il movimento comunicativo reiterando la partenza come avventura vana, che s’esaurisce in sé: parole cui è negato un reale arrivo, l’efficace consegna a successive stazioni percettive. Piuttosto ritratte nel fermo immagine del conato, dell’emissione: per ardore del singolo emanate e sospinte, eppure scaturite da un contesto, e moventisi in un flusso; non foriero di valido spostamento, quanto di sciabordio: la risacca di una particella disgiuntiva che non oppone, ma ribadisce un’ombra semantica, il suo lemma fantasma, eídōlon di sé stesso. Perché ogni principio muta e si ripropone in altra veste, secondo altri filtri e trasparenze, e nessun mutismo può dettare silenzio alla propria eco.
Così, in disgiunzione dialettica da sé medesima, la parola procede fluttuando e prendendo parte al fragore che tutto oltrepassa, e precede finanche il soggetto che l’ha generata o data al campo.
L’indizio, l’esordio del dipanare diviene punto in itinere, che “si estranea dal /sorgivo, perde il contatto con l’/ ultimità”, perché sia più chiaro lo smarrimento che deriva  da un’erranza permanente, che si ripropone in ciclicità, nella circolarità mai conchiusa della spirale.
Marchiato dall’ineluttabile, nella condizione costitutiva nell’essere posteriore, in ritardo rispetto agli agenti che lo configurano, l’individuo ha la sua unica via di libertà nel destituirsi dal gesto fondativo preliminare: fare deliberata stasi del pensiero, tentato varco di coscienza in cui il ritardo diviene intenzione, controtempo dialettico verso l’insostenibile che ci trae a sé.
Decostruire, in tale prospettiva, è mossa a ritroso, che fa affiorare gli elementi determinanti. Se irrigidire nel ruolo del soggetto, negare ai determinanti esterni il loro primato temporale, equivale a subirne il segno costitutivo, allora la désistance, con portamento sottrattivo, è l’unica impresa di emancipazione che ci è concessa.
In un sistema intrinsecamente fluido e mutevole, dove il paradosso è perenne, perché ogni cosa si rovescia nel suo opposto, cessazione è, per il singolo, prendere atto dell’ineluttabile che lo governa, riconoscendolo prima che accada, e rifondarsi in nuova sovranità.
Rimane il fatto che, tra un’origine che ci plasma e un destino occulto, il quotidiano è un movimento comunicativo tentato ma inane, privo in sé di reale traslazione, perché il destinatario per definizione è sempre assente, e l’ambìto spostamento resta impulso tra due immaginarie stazioni che combaciano, nel punto di “caduta dell’involontario e del disordine” (Maria Luisa Vezzali) dove il discorso è un fibrillare di correnti neurali e sintattiche, una migrazione in abortiva partenza fàtica e grafematica, una risacca esperienziale interminata e senza margine.
To touch or not to touch è un’opera complessa, speculativa, rilevante: assunto che elegge a sé l’inconcluso e l’imperfetto, persegue l’esercizio virtuoso della perpetua domanda. L’ininterrotto dialogo è persino con il proprio alter ego interiore: quel mistificatore, imbonitore, che germina e prospera in ogni autore e che, autocompiacendosi di sé stesso, fruisce del comune repertorio poetico, e si fa adepto di un coro di voci inattendibili (cui lo stesso Campi, citandosi, mostra di sentirsi parte). In più, contiene il gesto d’amore originario: tentare l’abisso del guardarsi, del muoversi in direzione dell’altro, inaccolti, facendo bracciate nel magma indefinibile; eppure sottrarsi, sempre in fuga a ritroso, verso l’angolo di chi lascia, dacché molto ha compreso: nella rinnovata compassione di sapersi tentativo e catastrofe, particella incompiuta tra miriadi di intenzionalità.
Un’etica profonda sembra svelarsi, a tratti, nel dettato: assoluto ed eterno hanno barlume nella creatura minuta che si percepisce e che, senza esimersi dallo sgomento di sé, solleva lo sguardo al prossimo: facendogli spazio, senza retorica, quando ne vede le stimmate di speculare smarrimento, e lo riconosce fratello nell’uguale.

*

Da: To touch or not to touch (la désistance), puntoacapo editrice 2022


Ciò che conta, alla fine, è l’
indizio non recepito all’
inizio della saga, ciò che
conta, alla fine, è continuare a
essere in ritardo con tutto ciò che
ci definisce e sfinisce, per questo non
sarà certo una sorpresa se la
figura-ultima, ammesso e non
concesso che si possa identificare con
chiarezza una figura definitiva,
risulterà uguale
a quella figura che ci ha
catapultato in questa risibile saga
a delinquere
o a delinquere,
e che insiste
nella ricerca del punto più
consono da cui cominciare a
dipanare il filo

Maurits Cornelis Escher, Relatività, 1953


[…]
in passato furono concubine e adesso
invece inneggiano la crasi, l’
urto violento, l’
incidente di percorso, il masso di granito sul
quale sfaldarsi, e l’
imbonitore lo sa, conosce i segreti della
scrittura, della finzione e recita a memoria il
solito peana: a visibili lacune,
a morie di referenti privi di utensili
che possano corrodere il
bastone che ancora fende l’
aria nel solito gesto inconcluso
di un salto mai compiuto,
a incarti di rara densità
seppure escritti e evidenziati
passando dal tondo al corsivo,
a manipolazioni di senso
ottenute trasformando il
manufatto in un artefatto
da cui escludere l’
enigma a favore di una cosa ben
quadrata o squadrata nei
suoi poli antitetici, che risale
la china camminando all’
indietro e che si volge ora a
destra ora a manca cercando
il coacervo di scarti in cui
stallarsi e riprendere fiato
a tutto questo e molto altro
si devono le innocenze di fatto
o le indolenze di comodo,

è sempre una questione di corpo,
aggiunse dopo una lunga pausa,
un corpo che c’
è, che è presente, che non può
essere guardato ma si riflette nel
nostro sguardo, rimbalza lungo il
vettore della linea che collega, scollega,
compone, scompone l’
accettazione e il rifiuto, e che
quindi si nega accettandoci, ci
accetta negandosi, questo corpo
discinto e oltraggiato, questo
senso del corpo che è il corpo del
senso, questi sensi acuiti, sempre più
sottili e penetranti, che deflorano il
corpo rendendolo sensato, questo
corpo significante sì, ma disastrato,
perennemente sconvolto e coinvolto nella
sua sterile disseminazione, che acquista
senso nella sua stessa devastazione, è
un corpo che produce danni, disse, perché
non dice ma è detto dal suo dire, perché non
scrive ma è scritto dal suo scrivere, è un
corpo condizionato
dal desiderio
o dal desiderio,

Maurits Cornelis Escher, Mani che disegnano, 1948


[…]
ciò che conta è il flusso, la scrittura che
svolge il suo compito o lo rinnega, ma
è la stessa cosa, la stessa solita
storia: non c’
è una storia, solo un’
solo un’
esercitazione
esecuzione, solo un’
escrizione, senza un destinatario con
cui condividere l’
assenza, la presenza, l’
essenza di un qualcosa che non
può essere dimostrato nel
suo accadimento, ma che
tuttavia esiste, persiste nel suo
dispiegamento ma solo nella sua
stessa desistenza, nel rincorrere un
punto che non si può raggiungere,
crollando e rialzandosi, come se il
senso fosse solo l’
infinita ripartenza, la ripetizione
forzata dal suo stesso automatismo,
ieri, oggi, domani, la tripartizione dell’
iterazione infinita, infinitamente
uguale a se stessa, quasi ridicola se
vogliamo, e in effetti non vogliamo
cambiare nulla di ciò che è e che ci
condiziona in negativo, al negativo,
perché anche pervertiti, convertiti o
riflessi riusciamo sempre a dare il
peggio di noi, une maille à l’
endroit et une maille à l’
envers, c’
est ça
, fatevene una
ragione, facciamocene una
ragione e diciamolo pure:
ciò che conta è la somma delle
sottrazioni a cui ci sottoponiamo, le
latenze che sono destinate a rimanere
tali, perché è così che deve
essere
o essere,

Maurits Cornelis Escher, Tre sfere, 1946


[…]
si tratta di voltare le spalle al tempo,
disse, si tratta di camminare all’
indietro senza vedere dove si sta
andando, senza rendersi conto del
ritardo che ci caratterizza e ci qualifica,
in somma, sottraendo più volte il
tempo al luogo, il tempo imposto
ma inattendibile, il luogo coatto e
inadatto, in somma, non c’
è più niente da sommare se la
tripartizione dei sentieri rappresenta il
nostro status, che è inalterabile,
che viene scandito per
morie di significanti, per
desistenze dalla volontà di
potenza

Maurits Cornelis Escher, Tre mondi, 1955


[…]
perché siamo tutti rimagliati in
fitte trame di
tessuto grezzo e inerte, come privato
delle molecole che ne determinano lo
spessore, l’
entità, la plusvalenza della
sottomissione, della
sottoposizione alla follia degli
elementi, alla circoncisione dello
spazio perimetrale, all’
escissione del fulcro da cui si
dipana il flusso, alla mistificazione del
punto ortivo che
scandisce l’
ora sacra della chōra, il
punto ove si ripete
il ciclo
o il ciclo,
la désistance, che rimodulazione!

Maurits Cornelis Escher, Rettili, 1943


[…]
non abbiamo risposte, né io, né voi,
solo semplici domande su un corpo che
agisce nell’
immobilità, solo articolate
interrogazioni
sul senso
assoluto
o assoluto
di una cosa sempre relativa, sempre
inconcludente, ricolma di scarti, di
sospensioni, di rinvii, e si
riesce a vederla, ride di noi
perché non riusciamo
a toccarla o a toccarla,

Maurits Cornelis Escher, Giorno e notte, 1937


[…]
ma noi non siamo il tempo, né nel tempo, il
tempo ci prende per mano e ci conduce
verso un’
illusione d’
immanenza, ma resta fuori di noi,
il primo passo è compiuto dal tempo sì, ma
ci limitiamo a seguirlo, per questo siamo
perennemente in ritardo, è il
tempo a varcare tutte le porte e a noi non
resta che replicarne il tragitto, ma nel
tragitto prende vita
il flusso
o il flusso,
ad ogni porta varcata si aggiunge un
tassello, un elemento, un fonema, è
così che funziona: la struttura è mobile,
rinnovabile, moltiplicabile, disse, o
almeno lo pensava, ed è per questo che
gli astanti si chiesero se fosse nel giusto,
del resto era stato lui, l’
imbonitore, a dare inizio alla saga
facendo esplodere il flusso dalle
pieghe, imponendosi un continuo
rovesciamento spacciato per riconciliazione,
ma lo sappiamo tutti che
ciò che conta, all’
inizio, è inviare un messaggio
fallace, ciò che conta, all’
inizio, è lo sconfinamento del
ritardo, ciò che conta è fingere di
definire lo sfinimento e giocare sul
colpo di scena dell’
avvento di una improbabile figura-ultima, che
colpo non è, perché fa scena-di-sé ma solo
per sé, la verità è che c’
è la scena, ma non c’
è un pubblico, gli astanti si sono dileguati
o magari non ci sono mai stati, così
come non c’
è mai stato un punto adatto per
cominciare a dipanare il filo to
touch or not to touch
forse l’
unica cosa che si può davvero toccare è
proprio quel filo d’
acciaio che lega tra loro i due poli
rendendo vano ogni tentativo d’
attrazione, e dunque: sputa sul
sorgivo, calpesta l’
ultimità, distrugge lo schermo, ride
della schermata che fallisce prima ancora che
il fallimento dell’
io si renda palese, no, non è una questione di
indizi, disse, ma nell’
intimo sperava ancora nel flusso, nella
disseminazione, senza rendersi conto che
intorno a lui tutto stava
svanendo

Maurits Cornelis Escher, Mano con sfera riflettente, 1935, particolare


[…]
era scritto su tutti i papiri, era urlato da
tutti gli araldi, sono i contrari a
condizionarci e a perfezionarci,
ci rendono abili per essere arruolati
nella milizia dei millantatori
o dei millantatori,
nella legione straniera ove perpetuare i
nostri peccati
o i nostri peccati,
ma sì, sono io, cosa
volete che vi dica? e certo, sono anche l’
altro, lo sappiamo tutti, ci tocchiamo o
comunque facciamo finta di farlo, ci
amiamo o comunque facciamo finta
che sia così, per gettare fumo negli
occhi, per confondere le tracce, per
far perdere la pista a chi si ostina a
inseguirci, anche se non si comprende
perché lo facciano, quale sarà mai l’
utilità di inseguire un misero imbonitore
che gioca a rimpiattino coi suoi
simulacri e con le sue alterità?

Maurits Cornelis Escher, Vincolo d’unione, 1956


[…]
une maille à l’
endroit et une maille à l’
envers, c’
est ça,
fatevene una
ragione, facciamocene una
ragione, non abbiamo nient’
altro, né io, né voi, non
abbiamo nient’
altro che l’
illusione dell’
altro, quell’
altro che ci sopravanza, che è sempre
avanti a noi, e non è possibile toccarlo,
nemmeno sfiorarlo, talvolta non
riusciamo nemmeno a vederlo mentre
cammina con passo spedito davanti a
noi, davanti ai nostri occhi abbacinati e
inebetiti, e non ci resta che dire sì,
affermare la nostra deficienza, non ci
resta che dire sì, siamo noi, quelli
perennemente in ritardo, perché non
abbiamo cose, né io, né noi, né voi, né
sul fronte, né sul retro di quella pagina
fin troppo piena da risultare vuota,
inevitabilmente privata di qualsiasi
utilità, ma sempre pronta a esporsi, a
consegnarsi al miglior offerente, ma
non c’è un prezzo da pagare per l’
ennesima propagazione di un
flusso che scorre solo a ritroso e
che rinnega il punto di partenza
riproponendolo all’
infinito, e allora, per quanto la forzatura sia
evidente, all’
interno della prima stazione
o della prima stazione
mi metto in pausa e osservo
nello specchio l’
altro che mi tende la mano
certificando inoppugnabilmente l’
impossibilità di toccarci,
la désistance, che lampante colpevolezza!

*

Enzo Campi (Caserta, 1961). Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990. Autore e regista teatrale con le compagnie Myosotis e Metateatro dal 1982 al 1990, con cui ha realizzato svariati spettacoli e performance.
Videomaker indipendente, ha realizzato numerosi cortometraggi e un lungometraggio. Suoi scritti sono reperibili in rete su svariati siti e blog. Ha curato prefazioni, postfazioni e note critiche in volumi di poesia, prosa e saggistica. Ha pubblicato Donne-(don)o e (ne)mesi (Liberodiscrivere, Genova 2007), Gesti d’aria e incombenze di luce (ivi 2008), L’inestinguibile lucore dell’ombra (Samiszdat, Parma 2009), Ipotesi Corpo (Smasher, Messina 2010), Dei malnati fiori (ivi 2011), Ligature (CFR, Sondrio 2013), Il Verbaio (Dot Com Press-Le Voci della luna, Milano-Sasso Marconi 2014), Phénoménologie (BIL produzioni cartacee, Bologna 2015), extra sistole (Marco Saya Edizioni, Milano 2017), L’inarrivabile mosaico (Anterem, Verona 2017, vincitore del Premio Lorenzo Montano), Artaud. Il supplizio della lingua (Marco Saya Edizioni, Milano 2018), Sequenze per un corpo senza organi (libro-oggetto, etc edizioni d’arte, Reggio Emilia 2018), La persistenza dei grumi (BIL produzioni cartacee, Bologna 2019), Moderato con brio (libro-oggetto, etc edizioni d’arte, Reggio Emilia 2019), Le nostre deposizioni, scritto con Sonia Caporossi (Bonanno, Acireale-Roma 2020), Fuochi Fatui (Oèdipus, Salerno 2021). È stato tradotto in inglese, francese, spagnolo, russo, polacco, rumeno. È direttore artistico del Festival Multidisciplinare Internazionale “Bologna in Lettere”, giunto alla X edizione.