New Press Edizioni 2023
Collana Il Cappellaio Matto, a cura di Vincenzo Guarracino
Prefazione di Marco Ercolani
Dalla prefazione:
Leggendo il nuovo libro di Lucetta Frisa La lezione degli dèi ci inoltriamo in una costellazione di figure mitiche dove il sacro e l’umano dialogano in forme teatrali, drammatiche, filosofiche. L’intero libro è segnato dal turbamento di passioni ambivalenti e opposte, dove ciò che è intimo, familiare, visibile, può sempre diventare minaccioso, estraneo, invisibile, come sottolinea Sigmund Freud nella sua analisi del “perturbante”. Il “perturbante” potrebbe essere definito quella dinamica di smascheramento che suggerisce la possibilità di vedere l’irreale nel reale, e viceversa, come se in ogni sentimento umano abitasse, anche se celato, il suo opposto.
[…] Ogni volta, per Frisa, il mito è il perturbante sommovimento di una pace apparente, e l’increspatura dei versi, la fluidità dei legami sintattici sono la ricerca di un ulteriore punto di vista nei confronti di un mondo mai riducibile a schema. “Guardare” dall’interno del mito, come in stato di ipnosi, è spiarne i passaggi segreti, meno visti, le traiettorie eccentriche che generano nuove domande, altre inquietudini. […] Frisa si inoltra nel mito identificandosi con le voci, incrinate ma classiche, di creature sconfitte, da Marsia a Cassandra, e costruisce-decostruisce le loro storie in versi che si dipanano in forma di sonetti, ma un sonetto irregolare, incurante della perfezione metrica, risoluto a essere il “basso continuo” di quelle voci.
[…] Questa poesia giovane, riflessiva e lirica, epica e intima, è scritta e vissuta al centro dell’età adulta: priva di porti sicuri, è sempre in ricerca, perché la vita di un poeta è la pienezza del suo destino, che oltre gli anni e oltre il dolore trova la gioia di rinnovarsi. “Il poeta soffre di meraviglie” scrive Nanni Cagnone. E aggiungerei […] non soltanto di meraviglie soffre il poeta ma anche di costanti metamorfosi, che lo guidano turbato verso isole sconosciute, anche quando crede di essere il tranquillo abitante della sua antica casa. Ogni poeta vero può non riascoltare, per l’ennesima volta, la “lezione degli dèi”?
La visione di Frisa non prevede e non prescrive limiti: invita all’erranza, allo sperdimento, e alla musicale narrazione di quell’erranza. Non si possono leggere queste poesie sperando di ricavarne una qualche teoria; si può solo trovare, nella misura meditata e ardente dei versi, la traccia di un cammino che si snoda fra lontananze e riflessi, errori ed enigmi: “un segno degli dèi forse un loro errore / forse un enigma difficile che neppure / la sfinge avrebbe potuto chiarire”. La poesia di Lucetta respira all’interno di una linea ondulata ma ferma, dove le immagini che affiorano evocano le emozioni del pensiero attraverso una scrittura vibrante, politonale, commossa ma fiera, sempre modellata in un suo felice equilibrio sonoro. (M.E.)
*
Euridice, Orfeo
Sfatta, lenta, si avviava sottoterra
a sfigurarsi confondere il suo nome
ad altri già affondati non più
chiamati all’evidenza. Il buio
si appiattiva agli angoli
come pensieri non detti: lei era
una persona amata per il corpo
chiaro la pelle profumata ma lui
avrebbe dovuto obbedire agli dèi
soltanto obbedire agli dèi
e al loro mistero.
Perché si era voltato? La conoscenza
l’avrebbe cancellata per sempre.
Non sapeva che l’ignoranza è sacra
come il sonno che la vita rigenera?
Senza una sosta l’inferno è lì
dove si è, perché non trattiene nulla
e rivela la voragine. Senza una forma
l’illusione torna dentro l’oscurità
sua origine-vertigine.
Sfatta, lenta, si avviava sottoterra
consumata dall’ansia senza limiti
del suo creatore che continuerà
ancora e ancora a chiamarla a interrogare
il nulla e rivestirlo d’amore.
*
Elena
Dicevano fosse donna bellissima
e gli uomini impazzivano d’amore
per lei combattevano una guerra
terribile tra due città con tanti
morti e dolore e lutto ovunque
sulle strade sul mare nelle case
sulla pelle negli occhi delle donne
e dei bambini rimasti orfani.
Lei si nascondeva nelle cantine
del suo palazzo negli angoli
invisibili dei suoi giardini perfino
in buche sottoterra senza respirare.
Evitava gli specchi
che ripetevano la sua falsa
bellezza esaltando l’angoscia
di vedersi diversa da come
la vedevano gli altri e diceva
che no, non era lei Elena, nessuno
l’aveva rapita ma piangendo
chiedeva di essere lasciata tranquilla
tranquilla e sola.
Sempre aveva fuggito i passi degli uomini
le loro voci le loro tremende
carezze i loro elogi melensi
i loro corpi duri e potenti.
Quando infine Troia si arrese
la cercarono per esporla alla folla
entusiasta ai battaglioni degli Achei
trionfanti: la cercò Paride, la cercò
Menelao. Dappertutto. La chiamarono
in tutti i luoghi, in tutti i modi
sciolsero perfino i cani
sulle sue tracce. La notte gloriosa
dei festeggiamenti lei, tremando
muta nel buio, cullava il suo gatto.
*
Omphalos
La natura delle cose ama nascondersi
Eraclito
[…] Sono in questo assoluto non luogo che esiste in me prima di me, in una profondità dove mi attende, immobile, l’altra me stessa; ostile, inadeguata al mondo che sempre mi ha sottratto. Il mio sguardo verso il centro è calmo e dritto: vedo infine il mio destino e lo amo, amo il mio nulla e il démone che lo abita.
Guardo questo vuoto ma non vi precipito; lo tengo a distanza, insensibile come chi cammina a piedi nudi su sassi e fiamme e non si ferisce, né brucia. Guardo e resto serena. Scrivo guardando questo punto, comprendo quel nulla in me. Scrivo perché scrivendo posso simulare mille volte questo attimo che precede la morte.
Al centro del pozzo c’è qualcuno. Certe fiabe parlano di voci, demoni solitari che abitano cavità acquatiche; questo démone, una volta riconosciuto e addomesticato, conduce il viaggiatore dentro il pozzo; poi improvvisamente sparisce.
Raggiungere il destino è chiudere un cerchio, fare coincidere la propria esistenza con il suo invisibile progetto, come il ragno con la tela, il viaggiatore con il viaggio. È punto di quiete e di estasi – che è fermezza di sguardo – inflessibile ma amoroso.
Mare, spiaggia, e un orizzonte vuoto – il sole basso, al tramonto. Piedi nudi sulla spiaggia ancora tiepida, sabbia tra gli alluci e io che mi dico affréttati a riempirti gli occhi di tutta questa meravigliosa luce. È il sogno ricorrente del tramonto, che facevo da bambina. Sempre il tramonto, mai l’alba.
Ora mare e spiaggia sono concentrati in un unico punto, tutto quello spazio dilatato si è contratto in quella clausura, in questo cerchio stretto, e tornerà a dilatarsi per qualcun altro quando non potrò più guardarlo. La mente lo ha raggiunto: piano piano dovrò convince il corpo a morire, perché al corpo, per morire, occorre molto più tempo; la mente giunge al traguardo per prima e si mette in attesa. Giorno dopo giorno lo aspetta.
[…] La fessura del soffitto che si affaccia sul cielo aperto, e ricorda la debole fontanella dei neonati, mi porta l’immagine dell’infinito, dell’aria, di una bufera d’aria luminosa; il respiro si allarga attraverso tutto il corpo – dalla radice del diaframma su fino alla bocca, alle narici e anche il sangue circola magnifico; questa immagine mi ossigena e penso subito al volo, avverto una diffusa leggerezza. Stato gassoso, gioioso, d’ebbrezza e d’euforia. Perché non prolungare questo respiro ampio, regolare e ritmico? Più prendo aria dall’aria e più mi calmo; aria ispirata che circola libera nel cervello e ritorna allo stomaco. È lui che va raggiunto, conquistato gradualmente dall’aria. La parte più nascosta che si risveglia e, riattivata, partecipa alla festa generale non avvertendo più il proprio confine, la propria separazione.
[…] Nella città labirintica, la città-tana, incavernata nel tufo, nella pietra, l’abitante si occulta in posizione fetale. Vive dormendo un unico sogno interminabile e tessendo rapporti di strettissima vicinanza coi suoi simili, sotto un cielo-fessura troppo abbagliante da guardare o sotto un soffitto-morsa. Città assoluta, con silenziosi, intricati vicoli da attraversare correndo inseguiti da un terrore senza nome, e con piazze e mercati colorati, chiassosi, stipati di corpi e cose fino a soffocare. Dentro questo ombelico, gli abitanti si disegnano addosso una città-membrana simulando un’esistenza in simbiosi con l’origine.
È all’omphalos che a Delfi si chiedevano responsi.
[…] Torno al mio pozzo. Il mio luogo claustrale, e imparo a parlare con parole essenziali, suoni già pronunciati dai morti.
Qui anche la mia anima sembra ferma. Trattengo l’anima come il respiro. Dopo che se n’è volata via, resta il Grande Respiro che la contiene.
[…] In sogno, ascolto suoni. Irripetibili da sveglia, ma la sensazione restante è quella di una misteriosa, struggente bellezza. Nostalgia del grembo sonoro di mia madre o annuncio di un altro universo – illimitato – che mi viene incontro?
Che una parte del mio cervello, ora assopita, torni a parlarmi. O mi raggiunga, presto, un’altra memoria.
*
Il dolore si nasconde in un sorriso
Non ho pensato che attraverso il sudore della pelle
Ingeborg Bachmann
Voleva perdere la sua identità
e non sa ancora se l’ebbe davvero
non volle mai cambiare la figura
l’infanzia il desiderio ed il pensiero;
soltanto non vuole più essere lei
non essere più un’umana creatura
ma appartenere solo all’universo
sotto altra forma o colore e leggera
spalancarsi e ridere. Nelle favole
gli animali si trasformano in uomini,
massimo premio degli dèi, ma lei
chiedeva loro un’opposta magia:
mutarsi voleva in animale
divino di compagnia.
*
Lucetta Frisa nasce e vive a Genova. È attrice, poeta, traduttrice. Vince nel 2005 il Premio Lerici-Pea per l’inedito e nel 2011 il Premio Astrolabio per l’opera complessiva. Suoi testi sono tradotti in antologie, riviste e libri collettivi, ed è presente in diversi blog letterari. Nel 2016 raccoglie, per Puntoacapo, un’antologia della sua opera poetica: Nell’intimo del mondo. Poesie 1970-2015. Per lo stesso editore pubblica nel 2020 Cronache di estinzioni e nel 2022 Ho tante albe da nascere.
Lucetta è anche qui: www.lucettafrisa.it