Interno Poesia Editore 2022

Prefazione di Alberto Bertoni


Ogni complessità pervasa di significato è encomiabile, ma non vela, d’altro canto, gli speculari pregi della semplicità: quand’essa cerchi l’armonia tra pregnanza di senso e chiarezza di forma, può essere gesto supremo di equilibrio. Difatti sempre campeggiano, nel cammino a ritroso – e che sia a ritroso – verso un lineare candore del testo, nella spoliazione che cerca il poco, alcune tentazioni ultime di complessità, che creano al poeta lusinga e insidia: residui di maniera, posture intellettuali, il gusto del forzato distinguersi, dello spiccare.
In ugual misura ci sono, nel tragitto morale degli umani, certe esilissime epiche quotidiane che, rimanendo in disparte dalla retorica, possono sfuggire a sguardi disattenti: minime esposizioni che si vogliono e scelgono, nei giorni del feriale, dell’ordinario che si ripete, per non abdicare al proprio sentire.
Perché in sostanza, quando un poco siamo santi, e sempre lo siamo per sbaglio, questo avviene per esposizione. Sventatezza voluta, quella senza risarcimento, che ci pone in avanguardia, un passo avanti alla fila: anteriori, sprovvisti di equipaggiamento, a sporgere dal modo sicuro, dal canone atteso, audacemente disallineati, a dare svago al mondo che guarda, giudica – altero e impastoiato – e commina, nell’ameno biasimo, le sue pene.
Saltuarie nobiltà ci accadono nostro malgrado, per incoscienza, per azzardo di affetti. Ci esponiamo alla critica, al riso, alla catalogazione, al raggruppamento. Al fraintendimento.
Eresia o disimpegno è, di questi tempi, parlare d’amore. Allora, perché la sommossa sia completa, parlarne in modo semplice: ciò che più soddisfa il sorriso dei cinici.
Dire del proprio smarrirsi e restar privi, dell’illudersi e del mancare, del mancarsi, senza rapsodie o celebrazioni, sfiorando una comicità toccante o un ilare pianto: dire dell’interminato ricominciare, del mai redento attendere, disporsi, apparecchiare, dirlo davanti a tutti il proprio cordoglio, il risentimento, la gelosia, con rima ingenua, con metrica priva, aperta.
Caro è, in essenza, l’essere umano che si espone. Il gesto primo d’amore è fare quel passo avanti, con commozione pronta tra le ciglia, con il perdono portato sul palmo. Trovare arguzia nel tragico, e avere sorridente pena della propria stessa boria – quando tentiamo, per esempio, di negare la dipendenza da chi amiamo – è vera forza, trave che tiene.
Beatrice Zerbini, forte anche dell’assiduità alla materia letteraria e poetica che l’ha sorretta fin dalla prima infanzia, e dell’affettuoso magistero che Vivian Lamarque le dedica e dona, in D’Amore, ultima sua fatica in poesia, offre un pane di consolazione e di vicinanza al suo vasto pubblico proprio tramite questa purezza calibrata, che, nel nitore semantico e sintattico, non esclude alcuno dalla celebrazione del rito; ma integra, e chiama.
Alberto Bertoni parla in prefazione di un rappresentarsi come poeta che prevede il testo aperto, in fieri. Aspetti che richiamano il teatro, e tant’è. L’amore stesso si rappresenta, quotidianamente, nella nostra realtà, e ama insinuarsi, con le sue propaggini di anelito e mancanza, attesa e abbandono, attaccamento, struggente ricordo, nelle cose minute del giorno. Ed è qui che l’illimitato, immesso nell’esiguo, non trova lo spazio per distendersi pacificato, nella quiete, e con potenza spinge da dentro, creando emotiva urgenza.
Zerbini ha creato un luogo dove l’amore fa narrazione e mostra di sé nelle cose minime, e vi insuffla un incanto dispettoso, spiritoso. La realtà è, in fondo, un continuo esempio dello spirituale e smisurato che ci sovrasta. È questo che innamora e immobilizza davanti a un fiore, un viso, un incontro. Perennemente straniato, sbigottito, l’umano cuore è esso stesso un abbozzo, un esempio: porta in sé quella tensione del grande nel piccolo che ci fa toccati, commossi.
Nostro lo stentare, il non arrivare; nostro il tribolato, ardente privilegio di dare dimora, nel corsivo minuscolo, a qualcosa di tondo e maiuscolo: essere esempio terrestre, affannato, divaricato in insufficienza, di quella celeste pienezza che è certezza e permanenza, perfezione d’Amore.

*

Da Beatrice Zerbini, D’amore, Interno Poesia Editore 2022


Arrivo sempre un poco dopo, sempre dopo
aver sbagliato, dopo
avere aggiunto troppo sale;
dopo
avere detto o
parlato male;

mi salvo sempre dopo
che ci sia
qualcosa da salvare;

mi abbraccio, mi consolo,
mi dico non importa:

imparerò come si vive,
quando sarò già morta.


Alicja Brodowicz


*

Potrei scriverti una lunga
lettera,
per spiegarti con parole
– se lo vuoi –
di che cosa tu mi spogli,
come tu abbia fatto piccolo
questo corpo amato male.

Ma rimanevo nel cortile,
seduta sui gradini,
nei primi pomeriggi
digeriti dagli anziani
nei letti di sopra
delle case popolari:
e da lì ti scriverei
con la mano più grande,
con l’identico cuore:

io sono una che piange
una cornacchia che sguazza
nel parcheggio soleggiato
sullo svincolo.

Nel becco,
con la mia identica gioia,
divora un grande pezzo
di carta stagnola.


Alicja Brodowicz


*

Com’è misurato amarsi meno,
è un lavoro sartoriale,
millimetrico,
amicale;

chirurgica la mano che
tutto fa per non sfiorare,
stare
in cabina di controllo
come da tuo protocollo:
nel collo,
la vena giugulare
col suo flusso da invertire;
nel petto,
silenziare
il rumore del rumore.

Che lavoro disamare,
soffocare,
che cesello da artigiana
che ci vuole;
lambiccare che l’amore
riesca a smettere di amare.
Sempre un triste mestiere
seppellire.

Alicja Brodowicz


*

Nere, verdi e gialle
che tristi e belle
le pompe
dei distributori di benzina;

come sono pronte
e ordinate e snelle;
aironi senza volo,
soldate al servizio
di stazioni di servizio.

Modeste sentinelle,
a testa china dentro un buco;
fatte per rifornire, capaci solo
di dare;

recluse, incatenate,
tutto il giorno a non guardare
qualcuno che va via.


Alicja Brodowicz


*

Moriranno i nostri vecchi,
con la pelle trasparente sulle mani
e il verde delle vene;
con una caramella
nella tasca e nel polso
un fazzoletto già sgualcito,
le briciole dell’ultima, ma non ultima
guerra.

Che ne sarà della grazia
del brodo di cappone,
da succhiare fra le labbra,
ma senza far rumore:
dove andrà a morire, dove andrò
a seppellire il mio
avere visto il piatto,
l’abbraccio che ha tenuto
nel suo cerchio stretti insieme
me intera e il Novecento quasi tutto.


Alicja Brodowicz


*

Le tue mani sono mazzi
di spighe e gambi di fiori,
muovono dinoccolate
dita; il polline tattile
dei polpastrelli fioriti;
viti e vigneti, a grappoli,

ortiche;

le tue mani seminate,
nelle pieghe dei vestiti;

sono lente primavere,
in cui tutto può accadere
e a cui tutto perdonare,

le carezze non sbocciate,
le distanze dall’estate:

zitte come delle mani,
belle come le tue mani,

le tue mani. Le tue mani
sono aprili, senza uscire.

Alicja Brodowicz


*


Per quanto io mi sforzi,

studiandolo dal bordo di una piazza,
seduta sul gradino in cui ti aspetto
come se fossi ferma in una pesca,
nel mare delle facce che non sei,
nel mare delle vite che non sono,

non mi ricordo mai

come siano capaci tutti quanti,
come facciano gli altri umani vivi,
in questo spazio-tempo che ci tiene,

ad essere nel mondo e a non amarti.


Alicja Brodowicz


*

Beatrice Zerbini (Bologna, 1983) ha pubblicato In comode rate. (Interno Poesia Editore 2019), Mezze Stagioni, (AnimaMundi 2021). Dal 2020 cura un progetto a sostegno delle famiglie e delle persone malate di Alzheimer, che ha dato origine a una rappresentazione teatrale portata in scena in diverse piazze emiliano-romagnole. D’Amore (Interno Poesia Editore 2022) è la sua terza opera poetica.