di Maurizio Casagrande


Notificazione di presenza sui Colli euganei

Se la fede, la calma d’uno sguardo
come un nimbo, se spazi di serene
ore domando, mentre qui m’attardo
sul crinale che i passi miei sostiene,

se deprecando vado le catene
e il sortilegio annoso e il filtro e il dardo
onde per entro le più occulte vene
in opposti tormenti agghiaccio et ardo,

i vostri intimi fuochi e l’acque folli
di fervori e di geli avviso, o colli
in sì gran parte specchi a me conformi.

Ah, domata qual voi l’agra natura,
pari alla vostra il ciel mi dia ventura
e in armonie pur io possa compormi.

Andrea Zanzotto, in IX Ecloghe (1962)


Difficilmente un poeta contemporaneo avrebbe potuto dimostrarsi più fedele alla lezione di Petrarca mantenendo nello stesso tempo la propria inconfondibile cifra stilistica: tutto, infatti, nella lirica è concepito in funzione dei canoni del petrarchismo a cominciare dalle misure metriche e strofiche (endecasillabi e sonetto), per giungere alla cura e alla pulizia del lessico, fino alla fedelissima miscelazione degli artifici retorici con esempi di antitesi che sembrano usciti dalla mano stessa del poeta di Arquà.

Così Petrarca:

Solo et pensoso i più deserti campi

Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co llui.

Francesco Petrarca, Canzoniere, XXXV

Pace non trovo, et non ò da far guerra

Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.

Tal, m’à in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.

Veggio senza occhi, et non o lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte e vita:
In questo stato son, donna, per voi.

Francesco Petrarca, Canzoniere, CXXXIV

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono

Voi ch’ascoltate in rime sparse
il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

Francesco Petrarca, Canzoniere, I


Tutto è petrarchesco, dunque, ad eccezione di un particolare: il titolo, incontestabilmente zanzottiano. Quest’ultimo, a ben vedere, è duplice ed ospita due anime: quella del Petrarca che sui “Colli euganei” aveva trascorso per davvero lunghi periodi di ritiro dal mondo concludendovi i propri giorni, e quella di Zanzotto che avverte l’esigenza di “notificare” la propria “presenza” sui medesimi luoghi, su luoghi cioè che anche per il poeta di Pieve di Soligo diventeranno, nel tempo, un topos fisico prima ancora che letterario, senza trascurare peraltro che sugli Euganei le “presenze” poetiche attestate nei secoli, sin dal cenacolo provenzale coltivato da Beatrice d’Este, si accavallano e s’intrecciano in una fittissima trama di “sentieri”.

Fotografia di Fulvio Roiter


Non si tratta tuttavia, per Zanzotto, di una semplice imitazione, del classico esercizio stilistico e formale “alla maniera di”: lo dimostra la difficoltà – si legga impossibilità – di stabilire con precisione dove abbia fine la suggestione del maestro e dove abbia inizio l’originalità dell’allievo, tanto profonda risulta l’identificazione col modello, nei temi come nelle forme. Inoltre, il tormento esistenziale che la tradizione è unanime nell’attribuire al Petrarca costituisce per davvero la via crucis quasi quotidiana percorsa da Zanzotto (prima e dopo le angustie della depressione), il quale non finge quando afferma di anelare alla “…fede, la calma d’uno sguardo”, e ancora a “… spazi di serene / ore…”. Se le tipologie sintattiche e lessicali adottate conferiscono al testo una patina di aulica classicità, nobilitandolo ed accreditandolo di un sapore d’antan, altri elementi lo avvicinano piuttosto alla modernità: si tratta, in particolare, di quel qualcosa di non risolto, di dettagli che sanno di frammento e di incompiuto seminati qua e là in piena consapevolezza da Zanzotto che, a questo modo, testimonia fino in fondo la propria appartenenza storica: così, il primo emistichio del secondo verso sembra legare pochissimo, sintatticamente ma anche concettualmente, con quanto segue e l’immagine ricorda, piuttosto che analoghi luoghi petrarcheschi, un verso icastico di Montale nella chiusa di Spesso il male di vivere ho incontrato («[…] / era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato», in E. Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1984, p. 35). Qualcosa d’irrisolto sembra presentarlo anche la prima terzina che dovrebbe risolvere, nell’apodosi, il complesso periodo ipotetico d’apertura mentre invece lo lascia sospeso (nella connotazione ottativa dell’ultima terzina) senza scioglierlo completamente: raffinatezze che solo un grande poteva concepire.

Andrea Zanzotto


Da un confronto sinottico fra i testi, emergono con chiarezza da una parte i calchi stilistici di Zanzotto, dall’altra la sua personalità poetica che lo differenzia dal modello esaltando la sua originalità. Quest’ultima è da riconoscere sia nel fatto che il trevigiano è riuscito a fondere armoniosamente all’interno di un medesimo componimento le tematiche portanti del lirismo petrarchesco (le quali, per inciso, vengono fatte proprie anche da Zanzotto, fin dalle prime raccolte: l’apertura alla natura e l’approfondimento psicologico), sia, soprattutto, nel particolare che all’interno del sonetto del trevigiano manca quasi del tutto, oppure è appena accennato acquistando per giunta un valore del tutto particolare, un elemento fondamentale in Petrarca: il tema amoroso; presenza/assenza che viene temperata da una sfumatura dei contorni e dei temi tutta leopardiana, aggiungendo così pregio a pregio. Il tormento di Zanzotto, infatti, è tutto esistenziale ed in questo la coerenza col proprio tempo e con uno dei poeti che ha saputo dar voce magistralmente a simile condizione – Montale – è fortissima. Esso ha origine, piuttosto che dallo scacco del sentimento o della passione amorosa, da un altro tipo di rifiuto: dal drammatico processo di negazione cui la modernità ha sottoposto la natura. Alla celebrazione della femminilità nella persona di Laura, cioè, si sostituisce in Zanzotto lo struggente canto d’amore per la natura e per una natura perennemente violata. Si potrebbe quasi dire che il poeta di Pieve di Soligo innalza ad assoluto la natura realizzando una sorta di ascesi laica alla quale si consacra fino in fondo. E, per mantenere il parallelismo con Petrarca, se fosse lecito parlare dell’opera di Zanzotto nei termini di un moderno Canzoniere, esso si distinguerebbe, in piena sintonia col modello, per l’assoluta predominanza sugli altri di un motivo monotematico: il corteggiamento instancabile della natura, piuttosto che di una donna in carne ed ossa, senza per questo disconoscere che la poetica del trevigiano è aperta ad un’ampia gamma di altri temi, incluso quello amoroso. Né sarebbe del tutto illegittimo leggere simile assunzione della tradizione, rivisitata per rigenerarla rigenerandosi, alla luce di categorie analitiche quali la sublimazione od il transfert.

Fotografia di Fulvio Roiter


Sono presenti, nel sonetto di Zanzotto, almeno tre aree tematiche, le stesse già care al Petrarca: l’area della natura (ma una natura non armonica né pacificata/pacificante: piuttosto in tumulto ed ebollizione sotterranea), l’area degli spazi solitari e del colloquio con se stessi, l’area della “reclusione”, del carcere e delle catene; quella, inoltre, della “guerra” e del confronto senza fine con un “nemico” irriducibile (ovvero la passione amorosa, attenendoci alla lettera del testo; il tormento esistenziale, invece, ad un secondo livello). Quanto alle voci verbali, predomina l’indicativo nelle prime tre strofe, ma nell’ultima abbiamo uno scarto significativo al congiuntivo con valore ottativo. Lo scarto fra quartine e terzine, però, è anche tematico: infatti – e in parallelo alle strofe finali di Voi ch’ascoltate – se le quartine di Zanzotto sono calibrate in una dimensione tutta interiore, con le terzine (la prima in particolare) è la natura ad imporre i propri diritti, una natura capace di vincere la propria selvatichezza per ricomporsi in serena armonia, sempre precaria peraltro, dato che quest’ultima riposa su di un equilibrio di forze geologiche estremamente fragili ed instabili quanto la psiche del poeta.

Fotografia di Fulvio Roiter


Cifre inconfondibilmente petrarchesche appaiono gli artifici retorici disseminati nel sonetto: la costruzione del periodo per strutture binarie o simmetriche (coppie di nomi, di aggettivi o verbi disposte nello spazio di uno stesso verso), le antitesi, la replicazione, l’anafora, la triplicazione di una particella ipotetica nelle due quartine (se…, se…, se…), i calchi lessicali o stilistici. Altrettanto si può dire della struttura sintattica, di una complessità pari a quella del sonetto proemiale ai Rerum vulgarium fragmenta: due soli periodi, uno dei quali lunghissimo (corrispondente alle prime tre strofe), come in Petrarca. Lo spessore sintattico della lirica risalta con piena evidenza dall’analisi della prima terzina: “i vostri intimi fuochi e l’acque folli / di fervori e di geli avviso, o colli / in sì gran parte specchi a me conformi”. Qui infatti il gerundio “deprecando” del v. 5 assolve funzione analoga allo pseudosoggetto di Voi ch’ascoltate (il “Voi”, appunto, che funge piuttosto da complemento di vocazione) attribuendo ai sostantivi “fuochi” ed “acque” del v. 9 la funzione apparente di complemento oggetto del gerundio; in realtà la chiave si nasconde nel verbo del v. 10, quell’«avviso» che regge entrambi gli accusativi trasformando i Colli, coi loro «fervori» e i loro «geli», in doppio speculare dell’agens. Il lemma “avviso” (voce del verbo “avvisare” al presente indicativo, da intendersi nel senso di “vedo”, “riconosco”), infatti, è il verbo sul quale si regge l’intero impianto sintattico del sonetto, la sua chiave di volta, e non bisogna confonderlo con un sostantivo. Il senso è il seguente: “Se (o quando) domando la fede, la calma di uno sguardo, se depreco le catene e le pene che mi legano, vedo (avviso) in Voi, o meravigliosi Colli, specchi che riflettono i miei tormenti”. Mentre tuttavia i Colli si “compongono” in “armonie” (leggi bellezza del paesaggio, dolcezza delle linee, mitezza del clima), questo miracolo al poeta non è concesso. Egli sembra suggerire piuttosto – a legittimare tale ipotesi è la scelta del verbo “compormi”, che ha un forte valore funebre: solo i morti vengono ricomposti prima delle esequie – che quella pace che egli insegue febbrilmente, potrà raggiungerla solo nel momento della fine, della morte (e anche questo, l’invocazione alla morte per porre fine alle proprie pene, è un topos petrarchesco). Stando così le cose, la lirica mostra di occultare una molteplice ricchezza di sensi, come si potrà comprendere da una riflessione sulla metafora dello “specchio” (motivo ricorrente in tutte le letterature: lo specchio come doppio della realtà o dell’io). Ma lo specchio, e proprio in quanto “conforme” all’io che vi si riflette, è uno specchio che distorce e altera l’immagine: l’agens non vi riconosce se stesso ma piuttosto proietta all’esterno, attraverso tale filtro, la propria interiorità tormentata: come il Petrarca di Solo et pensoso, Zanzotto “vede” nella natura esattamente quello che si aspetta di trovarvi, ovvero l’equivalente delle proprie angustie.

Fotografia di Fulvio Roiter


Inoltre, il tema del doppio è implicito e abilmente mascherato già nella voce verbale “avviso”, riconducibile etimologicamente alla formula latina “ad visum (venio)”, per un faccia a faccia con la natura che ricorda lontanamente il dialogo dell’islandese con la medesima interlocutrice nell’operetta omonima di Leopardi; con l’avvertenza però che Zanzotto, a differenza dell’illustre predecessore, può contare sugli strumenti analitici affinati da Freud e Lacan.
Ma il gerundio del v. 5 assolve un’ulteriore funzione: quella di alludere, per risolverlo in maniera nuova, all’artifico retorico della “deprecatio” familiare ai retori antichi come pure all’autore dell’Ecclesiaste o a poeti comici quali Cecco Angiolieri. Oggetto di tale deprecazione sono le «catene», il «sortilegio», il «filtro» e il «dardo» di Eros, in piena coerenza con la poetica di Petrarca, e insieme gli «intimi fuochi e l’acque folli» degli Euganei nei quali il poeta riconosce ed occulta ad un tempo i conflitti e le contraddizioni del proprio animo. E lo fa proprio per la ragione che, ancora con Petrarca, la “conoscenza” delle proprie fragilità porta necessariamente con sé “vergogna” e “pentimento”.
Dal punto di vista del lessico, termini come “sortilegio”, “filtro”, “dardo”, “fervori”, “occulte”, “intimi fuochi”, “geli”, rimandano tutti direttamente al repertorio della lirica d’amore, dai Provenzali a Petrarca, a testimonianza di un serrato confronto con la tradizione. Quanto al «crinale» del v. 4, che «sostiene» i «passi» del poeta, esso costituisce un ancoramento solidissimo e insieme quanto mai fragile: la solidità deriva dal fatto che si tratta di un luogo letterario, nel senso che nei secoli i Colli Euganei hanno offerto ospitalità e ispirazione prima ai trovatori di Provenza, poi ai grandi romantici (Byron, Shelley e Foscolo, ma anche Göethe ne aveva decantato le qualità; e ancora, il trovatore provenzale Aimeric de Péguilhan e Lambertino Buvalelli, ospiti di Azzo VI d’Este, Guido Guinizelli esiliato in Monselice, Angelo Beolco, di casa nella villa estense del suo mecenate Alvise Cornaro e, naturalmente, Francesco Petrarca), senza dire che il tema ritorna in alcune prose del trevigiano (Cfr., in particolare, Colli Euganei, nella sezione Altri luoghi, pp. 1079-1084, in Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, Mondadori, Milano, 1999), come in una lirica di Sovrimpressioni dal titolo Sopra i colli di Este (nella sezione Adempte mihi, II, in A. Zanzotto, Sovrimpressioni, Mondadori, Milano, 2001, pp. 35-36); viceversa la fragilità è connaturata all’origine vulcanica dei rilievi e, pertanto, a quel magma oscuro e ribollente che si agita al fondo di ogni uomo, nel dominio cioè dell’istinto e dell’inconscio.

Fotografia di Fulvio Roiter



Ancora, fra il termine «catene» (v. 5) e il lemma «nimbo» (v. 2) esiste una forte opposizione, anche simbolica: il “nimbo” infatti è immagine aerea che dice leggerezza, assenza di legami e di conflitti, armonia con se stessi e col mondo; le catene invece restringono repentinamente il campo confinando la prospettiva del lettore nello spazio chiuso di un carcere, con echi insieme platonici e cristiani nella dialettica oppositiva terra/cielo, rafforzata dagli ossimori e dalle antitesi. Valore affatto particolare assume la voce «notificazione», sia per la posizione “forte” che occupa all’interno della lirica (il titolo), sia per i significati che può acquistare. Il titolo, peraltro, legittima un paio di interrogativi: “notificazione” in che senso, e “presenza” di chi? Ed a quale area semantica rimanda la parola “notificazione”? L’area è quella giuridica, notarile o amministrativa (quanto mai lontana, dunque, dal repertorio d’amore: solitamente si “notificano” una sanzione o un contratto; e tuttavia il primo cantore d’amore in Italia era stato proprio un notaro: Jacopo da Lentini), quindi è implicito il riferimento ad un’autorità che ha il potere di emettere sentenze inappellabili e durature, la stessa di cui si sente investito l’autore: quella letteraria e poetica. Quanto alla “presenza” che è oggetto di notificazione è quella del poeta medesimo, ospite sugli Euganei. Ma gli Euganei, dal punto di vista letterario, non sono luoghi senza storia e pertanto la scelta di rimarcare la propria presenza in tale contesto assume un valore particolare, lo stesso valore che assolveva in Petrarca il rito solenne dell’incoronazione poetica in Campidoglio, previo esame poetico da parte del sovrano e cultore di lettere Carlo d’Angiò. Insomma, una sorta di autoincoronazione prendendo a testimoni i letterati che nei secoli hanno soggiornato sugli Euganei e, come officiante, garante e giudice ad un tempo, il più prestigioso dei poeti: Ser Francesco. Ma è legittima anche una diversa interpretazione – quella avanzata dal critico Marco Munaro – secondo la quale il radicamento di Zanzotto alla perfezione formale di Petrarca e la sua volontà di “notificare” pubblicamente tale ascendente non sarebbero altro se non il tentativo (riuscito) di contrapporre al vuoto che ci assedia la saldezza di un punto di riferimento inarrivabile, ovvero le forme impeccabili del poeta di Arquà.

Maurizio Casagrande


Di raffinatezza non minore risulta il gioco delle antitesi («et ardo, et son un ghiaccio» nel Petrarca di Pace non trovo, et non ò da far guerra; che diviene in Zanzotto, con pregevole variante ossimorica: «in opposti tormenti agghiaccio et ardo»), delle rime (su tutte, quella interna “domando : deprecando” che ha il pregio di fissare in maniera irriducibile la lacerazione interiore del poeta nell’antitesi fra supplica, al cospetto delle proprie fragilità, e desiderio – che non significa ancora volontà – di superarle) e degli inarcamenti (ad esempio tra il verso 2 e il 3: «se spazi di serene / ore domando», dove viene recisamente negata sulla scorta di Petrarca – e proprio nella frattura grammaticale che si produce fra sostantivo e aggettivo, rafforzata dalla rottura sintattica fra la particella “se” e il verbo che quest’ultima regge: “domando” – la possibilità di una conciliazione fra la dimensione del tempo e della vita terrena – le “ore” – e quella dell’aspirazione alla pace – l’aggettivo “serene”). Lo stesso si può dire della fitta trama di allitterazioni di cui è intessuto il sonetto: del tutto intonata all’acuta coscienza della lacerazione interiore dell’agens risulta, per fare un solo esempio, l’insistenza sui suoni acuti, striduli e quasi “petrosi” che connotano la seconda quartina, interamente giocata sull’onda ritmica delle dentali, delle rotanti e delle gutturali, veri e propri correlativi fonici della guerra che si combatte in interiore homine. Per converso, le labiali e le alveolari che abbondano nell’ultima terzina svolgono un’azione di compensazione timbrica rispetto alle dissonanze di cui s’è detto, coerentemente al voto di pacificazione interiore sotteso ai versi in oggetto.
In controtendenza al luogo comune della dolcezza del paesaggio euganeo, la “natura” dei Colli ci appare in Zanzotto scabra ed irta (essa, infatti, viene connotata in negativo con un aggettivo di sapore dantesco e infernale, «agra»: basterà pensare allo scempio delle pareti di roccia viva generate con la dinamite per lo sfruttamento della trachite, oppure ai boschi fitti di rovi che si sviluppano sulle loro pendici, o ancora al fenomeno del termalismo); tuttavia i Colli hanno saputo raggiungere egualmente, agli occhi del poeta di Pieve di Soligo (località nella regione del Montello, zona anch’essa collinare), una propria “armonia” vincendo la durezza degli elementi (o la hybris dell’uomo) e “domandola”, equilibrio che al poeta invece manca e che egli insegue invano: equivalenti simbolici e insieme materici di tale conflitto tra i Colli e la natura sono gli «intimi fuochi» e le «acque folli» del v. 9 e il poeta per raggiungere la sospirata vittoria (e, quindi, la pace interiore) dovrà ingaggiare una lotta senza quartiere con i correlativi interiori di tali esuberanze sotterranee.

Fotografia di Fulvio Roiter


Si potrebbe quasi parlare, dal momento che tanto in Zanzotto quanto in Petrarca l’elemento umano – ove si escluda il poeta – non si accampa sulla scena in prima persona, di una teatralizzazione della natura che si trasforma nello sfondo per la “recita” di un attore del tutto particolare che diviene, alla fin fine, il protagonista assoluto: l’io poetante che viene ad assumere in tale illusione di onnipotenza qualcosa del titanismo romantico e insieme della drammatizzazione tipica di Cavalcanti, ma senza alcuna esasperazione. Dunque, la coerenza rispetto alla lirica d’amore è garantita e il dissidio tra “fervori” e “geli”, nel passaggio dalla descrizione del mondo esterno allo stato d’animo dell’autore, si palesa per una trasparente metafora della passione amorosa.
Un’ulteriore peculiarità del sonetto di Zanzotto consiste nella scelta dei caratteri tipografici: tutta la lirica, infatti, è trascritta in corsivo come se il poeta volesse istituire una sorta di equivalenza grafica fra la pulizia e lo scrupolo nella grafia che era di Petrarca e i caratteri a stampa che maggiormente s’avvicinano a tale tipologia di scrittura, il corsivo, appunto.

Fotografia di Fulvio Roiter


È possibile individuare inoltre – ma a posteriori – (e si tratta di un altro carattere distintivo del Petrarca: l’autocitazione) una sorta di gioco di specchi negli echi autoreferenziali che si determinano fra opera e opera di Zanzotto: il “crinale” del v. 4, infatti, e l’ambiente stesso collinare non possono non indurre il lettore a ricordare che un’intera sezione della raccolta Sovrimpressioni porta il titolo “Avventure metamorfiche del feudo”, così come nella lirica inedita Osservando dalla china il feudo sottostante (reperibile sul sito “Bunker Poetico”, www.labiennale.org, e riconducibile alla medesima stagione di Sovrimpressioni), la “china” dalla sommità della quale il poeta compie le proprie osservazioni è, appunto, quella di un colle, con possibili rimandi da una parte al Leopardi dell’Infinito, dall’altra all’Alighieri della Commedia.

Maurizio Casagrande


Maurizio Casagrande è nato a Padova nel 1961. Per le edizioni Il Ponte del Sale di Rovigo ha pubblicato In un gorgo di fedeltà (2006), volume di interviste a venti poeti italiani, la raccolta d’esordio Sofegón carogna (2011) e un commento al Canto XXIII del Purgatorio dantesco incluso nell’opera collettanea Ombre come cosa salda (2011). Ha curato le antologie In classe, con i poeti (puntoacapo 2014) e, con Matteo Vercesi, Un altro Veneto. Poeti in dialetto fra Novecento e Duemila (Cofine 2014); del 2015 sono le sillogi Pa’ vèrghine ave, la plaquette Soto ‘a nogara; del 2018 In sènare; nel marzo del 2019, per Il Ponte del Sale, ha pubblicato la silloge Dàssea ‘nare; nel 2020, per Medusa, Co ‘a scùria.