a cura di Antonio Fiori
Anterem Edizioni 2022
con una riflessione critica di Giorgio Bonacini
Nella accurata (e appassionata) postfazione, Giorgio Bonacini osserva: “In queste pagine Mariasole Ariot affronta la cadenza dei suoi passi, consapevole dell’assenza di un sentiero; anzi, proprio lì dove il cammino si delinea mentre si svolge. È questa la sensazione che si prova e che fa della sua scrittura una esperienza talmente stringente da torcersi su di sé e sulle cose. Una pagina dove il bianco fra le linee-strofe non è semplicemente pausa di meditazione, ma passaggio da qualcosa che c’è a qualcosa che non c’è più.” Parla di voce che “si accumula, si distende, e infine si realizza a pezzi, a frammenti “, rileva “una forza di ricerca disperante”, un “rovistare tra gli oggetti della mente in modo maniacale”, un “percorso tortuoso” e si chiede, alla fine: “che speranze ci sono di ritrovarsi?”. Forse nell’infanzia, risponde Bonacini: quelle “bambole che guardano” possono aiutarci nel risveglio, guidarci “all’uscita dal rifugio”.
Siamo davanti ad una poesia dalla cifra originalissima, proposta per frammenti apparentemente prosastici che alla lettura ad alta voce scopriamo subito percussivi e cangianti. Non viene offerta alcuna suddivisione in sezioni, forma e sostanza alludono ad un unico canto, ad un’unica, perdurante elegia (sappiamo che nella tradizione greco romana l’elegia è dettata da motivi confessori, vicende autobiografiche in prevalenza sentimentali, con libertà di forme, seppure con prevalenza del distico elegiaco; qui possiamo forse parlare di ‘poema elegiaco’ composto per frammenti).
Una poesia abitata dai ricordi e dal dolore, che cerca anzi, nel dirlo, di estirparlo questo dolore. La poesia sembra essere, al contempo, rifugio e camera di tortura, strumento esorcistico e luogo della rimembranza: “Ancora – premere ancora – i bulbi delle cose – andare a fondo – nella notte chiara la chiara della vista – che non vedo – quando appare – e non ripara – la corda, questo piccolo morire”.
L’autrice dimostra una padronanza notevole della parola, specialmente quando all’improvviso muta significato a un verbo o a un sostantivo, lasciando un misurato straniamento, come nel “fulmen in clausula” dell’epigramma, un varco nel dire ancora aperto: “Nelle ceste – si accumulano carte frammenti di plastica coltelli – i vetri schiacciati – e desiderare – di saltarci all’interno – ché qualcuno chiuda il sacco e getti – questo gettito che sono”.
Il testo conclusivo, latamente metapoetico, parla di attraversamento della scrittura: “Attraverso il deserto mi deserto – destare un’opinione – sul margine del foglio – sfogliarmi separarmi misurarmi – avermi e non avere – per avermi – reciso l’esistenza”, laddove basterebbe omettere l’ultimo trattino per capire quale prezzo chieda al poeta la scrittura: l’esistenza stessa.
da Mariasole Ariot, Elegia, Anterem 2022
Dire la notte – quando non dormire – è un’arteria vuota – come vuota l’arteria
della testa – che dice il confine – e sprofonda – sprofonda ciò che mi ha fondato
*
Abitiamo – case sconosciute quanto chiaro è il chiaro – il salto che trascura –
i piani e l’altezza delle scale – la scelta che non sceglie la mia scelta – un cranio
senza scoglio – una scogliera
*
Mutano e cadono – e non mutano le cose morte – l’ombra – che mi avvolge di orizzonte – quando gli argini – non possono tollerare i fiumi – e un lago – si dilaga sulla fronte
*
Ancora – premere ancora – l’errore – di questo orrore cavo – l’urto dei corpi, i cadaveri sulle mani – mentre aspetto – e ricompongo quella scena – la mandria dei cavalli la rincorsa la presa delle gambe le mie gambe – un brusio contenuto – per tacere e tacere – il mio terrore
*
Ancora – non vuoto – votarsi alla voce – quando – vocifera il futuro – e non
c’è ancora – futuro che regga un futuro – quando – vocifera le regole – e dice
ricordare – le prove del reale – ma questo mio reale è questo – reale allucinato
– che allucina la mia vita
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Elegia, vincitrice della sezione “Raccolta inedita” della XXXV edizione (2021) del Premio Lorenzo Montano, ora edita da Anterem, Anatomie della luce (Aragno Editore, collana “I Domani”, 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook, 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell’ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio I’m a Swan (2017) e Dove urla il deserto (2019) e partecipato a esposizioni collettive. Ha come aree di interesse la letteratura, la sociologia, le arti visive, la psicologia, la filosofia. Per la saggistica predilige l’originalità di pensiero e l’ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca.
Antonio Fiori è nato a Sassari, dove vive, nel 1955. In qualità di critico ha collaborato ai blog letterari «Via delle belle donne» e «Oboe sommerso» e al mensile «Poesia» di Crocetti. Nel 2004 è stato tra i vincitori per la silloge inedita al Premio Montale Europa. Per il libro Nel verso ancora da scrivere (Manni, 2018) ha ricevuto il riconoscimento «Per una vita in poesia» al Premio Montano 2019. Ha pubblicato inoltre Sotto mentite spoglie (Manni, 2003), La quotidiana dose (LietoColle, 2006), Trattare la resa (LietoColle, 2009), In merceria (Carlo Delfino, 2012) e I poeti del sogno. Piccola antologia (Inschibboleth, 2020). Per Avamposto cura la rubrica Terza voce.