Giuliano Ladolfi Editore 2021
prefazione di Maria Grazia Calandrone


È un libro che traccia per barlumi l’incerta e potente strada della vita quello di Annamaria Ferramosca (Per segni accesi, prefazione di Maria Grazia Calandrone, Giuliano Ladolfi Editore 2021), un’opera che canta «le origini» e «l’andare» di ogni esistenza, come in epigrafe Zagajewski; quel segreto nello scrigno che è esordio e compimento, nascita e albore che trova luogo su un fremito di foglie, in quello «stormire basso» che si fa silenzio, doglia, nuovo respiro a premere il cielo.
Laddove il «tendere misterioso del seme» diviene creatura, vivente tepore, capace di reminiscenza arcaica di salmastre distese, e amniotiche oscurità di «alghe azzurre», primi palpiti del vivere, raccolti in calice di respiri e promesse.

Larga piove bellezza sulla terra
e ci fa ibridi lungo i meridiani

Fotografia di Kenro Izu

i vivi mescolati, bagnati di luce, eppure assopiti nell’inganno, in esistenza che è cifrato cammino e smarrito calcolo, errore adulto di separazione, chiusi nella distanza, stranieri a quelle «cose piccole e buone» che il bambino ancora tiene care, tra le dita.

Qui c’era una casa e una cisterna
cigolava di vita e carrucola

diletta e dura era la vita, candida e stremata, nell’innocenza delle stagioni e delle mani alla terra, ora inessenziali noi nell’ipnosi dei monitor, avvolti da involucri sintetici e proiezioni tropicali, in un teatro a pixel che oscura e ignora il disumano: il mare che inghiotte i tralasciati, gli «uomini con profili di deserto». Il mare che inghiotte ma non dimentica.

La grande migrazione si rivela all’alba
quando il nitore è allo stremo

nel mattino, tela candida, si eleva nitido il pianto: si alza dal mare come litania tinta d’alba, nel cordoglio delle acque, il canto mesto degli scomparsi, rosato come spezzato sangue, interminata trenodia.
Divisi e feriti, altresì in prevaricazione costante, come ritrovare – sembra dire la poetessa – la gentilezza degli spazi, l’equità di scuro e chiaro, in geometria sapiente, che dia spazio a ogni essenza

è ora di prossimità […]
riconoscere la distanza di rispetto
tra pianta e pianta nido e nido
la discrezione dell’ombra e del chiarore

Fotografia di Kenro Izu

è carezza in levare l’amore preciso che lascia esistere e contempla le faccende minute, gli spazi, i ritmi e i luoghi delle cose piccole, senza muovere, senza spostare, lasciando aria

quegli occhi sulla vetta
quell’assenza d’ali
quelle città sepolte
divenute miraggio

Fotografia di Kenro Izu

è sempre incendio, esodo e dimenticanza; e l’angelo che s’avvicina cigliato di bene, e l’umano in corsa girato di spalle, semidio che scava montagne e ricrea il mondo con le macchine, ma non sa muovere le labbra a

dire del corpo vivo
della compassione del cammino

Ferramosca disegna coi suoi versi una catastrofe gentile, un rombo di sguardo che s’alza da terra, l’esplosione di un intreccio di mani, che sia cuore alle tempie di un ricordo antico

respiro caldo delle origini
memoria del cerchio a piedi nudi
[…] prossimità danza battente
all’unisono con il ritmo del cuore

e ancora

imparare dal ghiaccio
a splendere da vivi a morire
rinascendo in cascata limpida

la vita effonde nei corpi e li illumina, poi dilegua e pervade altri respiri, ed è questo transito che ci fa sacre creature accese, se solo sapessimo essere ancora fiume e greto, passaggio libero, mano aperta. Disarmati nella meraviglia, imbelli come

bambini scalzi [che]
ancora pescano l’azzurro
con ami di pane

Così tenta l’arte del vivere il poeta

camminare accanto
insieme seminare mietere
insieme spartire
pane e parole
[…] vivere di sostesilenzi per
ogni bagliore ogni voce

nelle soste divaricate in silenzio, ancora la cura che accoglie, e risuonare del «pianto millenario», assentire a quella «lenta morte a ritroso» che è «risorgenza», mai sazio sapore della fine, e riaccendersi nella spietatezza del bene oltre il margine del nostro comprendere.

Sentire feroce il sole ridere
di noi umani confusi reclusi
a schivare corpuscoli armati
ad attendere lentissima
la chiarezza

Fotografia di Sebastião Salgado

chiarezza lenta, arcana, mai giunta, quella «luce indecifrabile», che Ferramosca evoca in una sua personale nota al testo poetico, dicendone «che forse ha a che fare con un muto augurio, un residuo desiderio di sopravvivenza in dignità e incontro universale».
Che sia ancora suono e melodia la parola, abile a tracciare nell’aria quel «cerchio larghissimo e amorevole» che, tradito e ferito dalle quotidiane durezze, persevera nel riproporsi lieve, silenzioso, come costellazione di segni accesi, come alloggio e ricovero dal rampicare del male, come unica possibilità residuale, ostinata in soffio, di questo nostro smarrito vivere.

Annamaria Ferramosca ci ha fatto dono di un’opera in cui traspaiono, in filigrana, intense percezioni: del sacro che pulsa nella vita, del fluire doloroso nel bene, della comune matrice delle creature.
Nella poesia di Ferramosca c’è quell’andare oltre la desolazione del cuore singolo, quel salire in visione che salva dall’esser trincerati e bui, dal negarsi in isolamento.
Il poeta è cuore aperto qui, e coraggio nel dire, e creativo gesto di reiterata nuova aurora; pervade il testo quella tenerezza candida che è propria degli arditi: un lasciarsi divaricati all’alterità, aperti all’annuncio del cosmo.

Poesia profondamente femminile quella di Annamaria, che germoglia nella fecondità della contemplazione, nel reiterato aver cura, nel farsi risuonare come ramo d’albero alla brezza.
Ecco la poesia che unisce le voci – come la poetessa dice – persino delle creature senza parola, e che candida ed elegge certe anime a stare vicine.
Non siamo soli. Percepire l’altrui palpito, con occhi grandi, è farne segno acceso, e divenirne strumento, farne melodia; scrivere su mulinelli di foglie, su pagine d’acqua, indomiti: quel «libero volo compassione occhio / testimone del vento del tempo» che è assenso e obbedienza, che è unica libertà, perché sa accogliere nel ventre il battito ancestrale del cosmo.
(I.B.)