puntoacapo Editrice 2022
Prefazione di Luigi Cannillo, collana AltreScritture
Lucetta Frisa con l’ultima sua silloge Ho tante albe da nascere (puntoacapo Editrice 2022) cerca e porge un nuovo tempo per dire vita, chiamando i cuori al convivio, e ravvivando le braci della parola. Lontana per sua natura dalle pesanti sintassi, Lucetta in tutta l’opera sembra adoperarsi per dare respiro alla luce: creatura materna, dal tepore alato, madida di linfa e poesia, la poetessa porge in dono i suoi versi a carezza, come viva notizia.
Con essenza profondamente equorea e assolta, da interiorità sature di sovranità e consenso – grandezze che, a ben vedere, sempre collimano – Frisa sembra sentire con sussulto l’accelerare e il decelerare del mondo: flusso che, nel recipiente del petto, sale, e al cuore esonda. Tra i fraseggi lirici, molti i radianti riverberi, molti gli effluvi di madreperla: un ripercorrere le armonie dell’alba, nel rifiorire eterno di cui la poetessa si fa specchio ed eco.
Perché movimento e chiarore appaiono sua materia e dimora:
All’alba
gli uccelli cantano note smemorate
consegnano una luce
tenuta stretta in gola
nella notte
nel conio di vivente e mobile anima accesa, non sazia di commozione:
Io muoio per quello che non mi sorprende più
e inerte si ripete senza emozionarmi.
Senza posa, senza sonno, ma per interminato mutare, e iridata metamorfosi, ardente in trasparenza, la poetessa è grembo a ogni vigilia, frescura di cosa bianca, riconsegnata al mondo:
E tu
vai germinando in te un altro
da te
che dal grembo si stacca per vedere
senza ciglia
gli infiniti spettri del sole
e ansiosamente interroga l’aria
e si inventa
le risposte.
Senza timore del quieto precipizio, che è crudo, ardito disperdersi in ustione:
Chi apre troppo in fretta i nascondigli
brucia di febbre inumana
e in giro va appiccando roghi
di follia e meraviglie.
Pericoli.
Se queste albe di pane, di bianco velo come spose, che bisbigliano ancora architetture trasparenti del possibile, sono «nero latte» per gli oppressi che «aprono gli occhi / e subito ritornano a morire / stritolati/ dentro le proprie ossa»; ebbene il poeta, in precipite salvezza, vive tuttavia aurore di parole e gemme di strade, e mai arresi percorsi, specchi opachi di bagliori segreti; intermittenti come fremiti, cupidi come amanti:
lungo la strada delle frasi
che prendono il posto di ogni cosa
facendo luce
e tenebra e vuoto e di nuovo
luce
a chi trema confuso
nel chiaroscuro.
Ecco che Frisa, fattasi natura cava e bianca madre, è donna che esclude e sospende gli scadenzari del tempo, eppure sempre allarmata dal cerchio del giorno:
Sotto le ciglia e le imposte
si è insinuato il presente
e chi ha parlato nei sogni
ora è nascosto nel buio
tuttavia rinata a nuove concordie di luce, nell’esordio trascurato che ruota e ritorna:
voglio svegliarmi all’alba
vuota e lontana come l’orizzonte
che segna in larga conca
il mio mai nato futuro.
L’anima poetica si fa come linea che intaglia, nell’istante, come margine:
come il viaggio
dell’ombra dietro al sole.
È questa vita incisa, questi sentieri assorti in tersa giovinezza d’amore, e ogni cosa che ricorda ora, e risponde; con premura di salsedine e risacca: il mare, nella precisa cura:
La prima volta che andammo
non si era visto nulla:
bellezza
non percepita
che sfiora appena il corpo
come fiato di madre
e se ne vola via
mescolata all’aria
e i sospiri sul fondale, bordone di chi in percezione vive, in nudità dalla «solida maschera dei vivi»; eppure nella vita più madida, candida di crimini e verità:
da qui
con l’acqua entrata in gola noi vi parliamo liberi
alterando la vostra voce con la nostra
confusa ai suoni allo sfavillio delle luci
per turbarvi fino alla follia;
e forse è questa la meraviglia
dei silenzi nelle stanze, dei bisbigli del vento
delle pause improvvise tra le parole.
[…]
Cocciuti di sogni e fragili nei dolori
Ancora per caso in ostinato vivere, ma nel solo mare paghi di respiro lento, «culla umana», «legge creaturale del cosmo» che con polmoni di sale ci ridà alla notte lucente di assoluto, agli interminati vertici sacri e bui:
prima cellula di tutte le cose
[…]
nell’assoluto sonno dell’inizio.
Preghiera d’amore tra terra e nuvole, sfiorarsi è profondo conoscere, tracciarsi con carezza, nella vertigine di «serietà sublime» che ci fa vivi, sotto matematiche di costellazioni, «pietre carne aria» in unico corpo trafitto di «materia oscura»:
alzo il bicchiere come Khayyàm
nel fermo-immagine di un attimo
e di un ultimo desiderio
Casa della sete, questa carne di vita che si erige ora nel suo verticale canto potente, Amore che discioglie ogni morte, nell’erotica elegia, nell’ardua fiamma di un vissuto spoglio, umile d’errore, ecco ora che trasfigura in rivo inatteso di luce: l’altrove, oltre ogni soglia, oltre ogni pensato varco, è ancora poesia.
(I.B.)